giovedì 3 dicembre 2015

Molenbeek, la sfida dell'italiana Annalisa Gadaleta nel ghetto dei jihadisti


Come si vive nella culla del jihadismo europeo? La domanda la facciamo ad Annalisa Gadaleta, ambientalista barese di 44 anni, due figli, dal ‘94 trasferita in Belgio per amore e dal 2012 assessora alla Cultura e all’Istruzione diMolenbeek, il sobborgo di Bruxelles da cui sono partiti gli attentatori di Parigi del 13 novembre. “Molenbeek non si può ridurre a questo. Ci sono 100 mila abitanti con una grande diversità sociale e culturale, mentre stiamo parlando di pochi individui”.

lunedì 16 novembre 2015

Antonia Pozzi, la poesia che ci guarda


“Signorina, si calmi” . Così nel 1935 il filosofo Antonio Banfi liquidava con tre parole scritte in calce al manoscritto, l’ardore poetico della sua brillante allieva Antonia Pozzi, che gli chiedeva un giudizio sui suoi versi.  Proprio per quei versi bistrattati il nome della Pozzi dal 2 novembre 2015, pochi giorni fa,  è scolpito  nel Famedio tra i grandi milanesi , lì accanto al suo professore che l’aveva così brutalmente scoraggiata.  Un bel risarcimento oggi, ma allora, per lei che dichiarava: “vivo della poesia come le vene vivono del sangue”, un colpo feroce alla propria identità di poeta.

 Antonia Pozzi, ragazza milanese di buonissima famiglia e vasti interessi nella stagione buia del fascismo, si è suicidata nel 1938 a 26 anni sul prato di Chiaravalle, senza aver mai stampato un verso. Per quarant’anni, nonostante alcune pubblicazioni postume e gli elogi di Montale,  la sua vicenda letteraria è passata sottotraccia. Fino agli anni Ottanta, quando è iniziata la sua riscoperta per merito di una suora, Onorina Dino.  Al suo ordine, le Preziosine, la madre contessa  di Antonia aveva donato la villa estiva di Pasturo, in Valsassina, con tutto l’archivio della poetessa che considerava quella casa il suo rifugio.  Da allora ad oggi è stato un crescendo vorticoso tra ristampe, saggi e convegni, gruppi facebook a lei dedicati, traduzioni, film. E la sua icona di poetessa tragica è servita persino a rilanciare il marketing territoriale: all’ingresso di Pasturo compaiono grandi cartelloni con il suo volto e i suoi versi che invitano alla visita. Ora la casa della Pozzi, di proprietà delle religiose, non ospita più l’archivio, acquisito dall’Università dell’Insubria. Antonia è nel cimitero del paese, dove ha voluto essere seppellita, meta di pellegrinaggio di fan devoti.

  Prova regina di quanto il suo culto si sia esteso è il numero di film su di lei in circolazione: ben tre. La prima pellicola, “Poesia che mi guardi”, docufiction  del 2009  della milanese Marina Spada, è ora in programmazione all’Oberdan di Milano nella rassegna cinematografica dedicata ai poeti, nell’ambito della mostra “Sopra il nudo cuore”, che raccoglie fotografie e filmati di e su Antonia Pozzi (fino al 6 gennaio). Una bella occasione per scoprire come gli altri vedevano Antonia,  nelle foto di famiglia che la mostrano ragazza elegante, sorridente e un po’ impacciata sui campi da tennis, al mare o in mezzo ai suoi compagni di università Remo Cantoni e Vittorio Sereni.  Ma soprattutto  un altro modo, oltre ai versi, per capire come lei guardava le cose. Oltre alla poesia e alla filosofia le passioni della Pozzi erano la fotografia, 4000 gli scatti che ha lasciato, e l’alpinismo. La seguiamo così nelle sue passeggiate in montagna, innamorata della natura. Ma anche nel suo vagabondare  armata di macchina fotografica nelle periferie milanesi, che negli ultimi mesi di vita frequentò assieme a Dino Formaggio, uno dei suoi amori non corrisposti,  studente operaio e compagno di università poi divenuto uno dei più importanti filosofi italiani.  Quelle periferie che racconta spietata in “Via dei Cinquecento”, il palazzo degli sfrattati: “…e la fame non appagata/gli urli dei bimbi non placati/il petto delle mamme tisiche e l’odore/ odor di cenci, d’escrementi, di morti-serpeggiante nei tetri corridoi”.


 Si può leggerlo come il diario di un'anima e si può leggerlo come un libro di poesia” diceva Montale delle sue poesie, nella prima versione manomesse dal padre, avvocato fascista che aveva censurato i versi per lui più indecenti, così come  aveva occultato lo scandalo più grande, il suicidio, edulcorato in polmonite fulminante. Mentre Montale invitava a leggere soprattutto il “libro di poesia” e la bellezza dei versi, nella riscoperta di Antonia Pozzi fatalmente si è preso parecchio spazio anche il “diario dell’anima”, la sua biografia, l’icona dark della giovane poetessa suicida sfibrata dal male di vivere e dagli amori infelici. “Per troppa vita che ho nel sangue tremo nel vasto inverno” scriveva lei, ed è la regista Marina Spada a parlare di sensibilità punk ante litteram. E non è poi così strano trovare sue citazioni persino nei blog dei metallari. Nei altri due film più recenti,  Il cielo in me, Vita irrimediabile di una poetessa del 2014 di Sabrina Bonaiuti e Marco Ongania e nel 2015 Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, che in questi mesi sta girando molti festival e ripercorre gli ultimi dieci anni di vita della Pozzi, l’attenzione vira sul dramma esistenziale. Lo snodo cruciale è l’amore contrastato,  e alla fine impedito dalla famiglia, di lei ragazzina 17enne con il suo professore di greco e latino di 18 anni più vecchio. Amor fou ed evento drammatico centrale nella sua vicenda.  Su di lei si sono divise anche le sue principali biografe, Alessandra Cenni e la stessa Onorina Dino, l’una ipotizzando amori carnali e forse persino un aborto (del resto nella poesia della Pozzi la figura del bambino non nato, del bambino morto è ricorrente) l’altra accreditando l’immagine di una Pozzi ardente ma  “pura”, mistica laica e ribelle.

Un miracolo la Pozzi sembra averlo comunque fatto, un sortilegio capace di tenere insieme mondi e sensibilità sideralmente distanti, religiose e femministe, collettivi alternativi e premi Nobel, metallari e accademici.  Merito senz’altro del “libro della poesia”, quelle parole  asciutte e dure come i sassi e come gli ulivi, oppure vestite di veli bianchi strappati” secondo la definizione della stessa Pozzi, che ritroviamo nell’ultima raccolta completa della sua opera Parole,  a cura di Onorina Dino e Graziella Bernabò, (Ancora edizioni, 2015) che verrà presentata all’Oberdan il 9 novembre alle 18,30.


http://www.antoniapozzi.it

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Pubblicato su Cultweek il 7 novembre 2015

giovedì 12 novembre 2015

Cos'è la destra, cos'è la sinistra

C’ era una volta la politica. Arte della gestione della cosa pubblica che oggettivamente non sempre nella storia sembra aver dato il meglio di sé al cento per cento, ma pure ha costruito pezzi della civiltà occidentale. La politica  che aveva galoppato nella prima metà del  Novecento a cavalcioni delle grandi ideologie ha finito poi per seguire il destino delle stesse, fino allo schianto finale dell’ultima sopravvissuta, quella comunista. Non che le ideologie in realtà siano davvero sparite: è rimasta in piedi quella capitalistica e del libero mercato, della cui bontà e inevitabilità ormai nessuno osa più dubitare, nemmeno un lavoratore di call center. 

Nel nostro piccolo italiano, quando le ideologie andarono a ramengo e Tangentopoli svelò il lato prosaico della faccenda, cominciò ad affacciarsi il mito della società civile, che era meglio dei politici e da lì bisognava pescare per  una resurrezione della Politica con la P maiuscola affidata alle competenze dei tecnici da un lato e della “gente comune” dall’altro. Allora i grillini non erano ancora nati, ma la realtà finora ha dimostrato che di fatto il massimo che è avvenuto è stata una cooptazione e che una volta che si arriva lì in cima, senza adeguati anticorpi e contromisure, ricomincia il giro di giostra e si diventa élite, con tutti i rischi, le tentazioni del caso e soprattutto le inefficienze. La differenza è ora che tutto avviene senza nemmeno dover scomodare paroloni e una qualche visione del mondo.   
Una botta definitiva a questa obsoleta concezione ideologico-spaziale della politica la stanno dando, praticamente in coro, i due candidati in pectore  più accreditati per Roma e Milano, Alfio Marchini e Giuseppe Sala. Più o meno usando le stesse parole hanno decretato la fine del bipolarismo “destra e sinistra”, Sala con un ruvido “me ne frego”, Marchini parlando di “schema superato” e ovviamente appellandosi alla società civile.

Resta l’umile interrogativo: con quale “vision”, direbbero i manager, oggi tanto in voga? Tutto è straordinariamente coerente, del resto la grande narrazione del partito della Nazione renziano sembra essere soprattutto questo: grande enfasi nel decretare la fine del vecchio ammuffito mondo bipolare (deprimente) e sguardo verso il mondo nuovo che tiene insieme tutti tranne i rosiconi.
Per fare cosa? (Il “come” non sembra più interessare a nessuno).

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Pubblicato su Metro il 4 novembre 2015 con il titolo La politica unipolare

martedì 6 ottobre 2015

Se il mondo dell'informazione si dimentica di raccontare le donne

C’è un Paese dove ancora il 100% di  poliziotti e militari, religiosi  e tecnici, agricoltori  e impiegati ministeriali sono maschi, e sono maschi il 90% di politici, sportivi,  imprenditori, medici. Un paese dove la presenza delle donne è nascosta salvo affiorare a macchia di leopardo, qua e là: il 25% degli insegnanti, il 23% degli artigiani, il 27% delle celebrities, e oibò, il 74 nelle ong. Non stiamo parlando di qualche emirato, ma dell’Italia.
 I conti non tornano, vero? In effetti questo non è il paese reale, ma il paese così come viene rappresentato da quotidiani e tivù nazionali, come racconta una ricerca promossa dall’ordine dei giornalisti Tutt'altro genere di informazione, coordinata da Maria Teresa Celotti,  che ha esaminato 15 quotidiani nazionali, tra cui Metro e 8 telegiornali. Il risultato è una stupefacente sottorappresentazione del ruolo delle donne nella società italiana, la quale è in effetti molto più avanti di come i media vorrebbero farci credere. Qualche numero: le donne fanno notizie solo nel 17 % dei casi, a meno che non siano vittime, in tal caso balzano al 48%. Le donne consultate come esperte  sono solo il 19%, le giornaliste firmano in prima pagina il 20% delle news mentre rappresentano il 40% della categoria. Metro, in questo quadro abbastanza sconfortante ci fa una discreta figura, dedicando più spazio alle notizie che riguardano le donne (il 20% rispetto alla media del 17%), ed è citato in due casi di buone pratiche, per lo spazio dedicato alla scrittura femminile nella rubrica dei libri e in un approfondimento sul lavoro flessibile.

Non conta solo il quanto, ma il come si parla delle donne e allora qui si spalanca  l’abisso degli stereotipi che per esempio trattando della Boschi, si soffermano sul colore del vestito e sull’altezza del tacco, più di quanto non farebbero nel caso di un suo collega di gabinetto maschio, con varie declinazioni sexy e rosa anche di argomenti molto seri, quando di mezzo ci sono donne in posizioni apicali.  Resta poi lo scoglio degli scogli, quello linguistico: ministro e ministra, avvocato o avvocata? La declinazione delle professioni al femminile per molti operatori dell’informazione intervistati nella ricerca suona tuttora come il gesso sulla lavagna, ma gli esperti della Crusca ci invitano a considerare che si parla come si pensa e visto che l’italiano utilizza i generi, dire ministro per uomini e donne significa pensare che sia un ruolo prettamente maschile, cosa che non è. A noi di Metro la ricerca ci imputa in un caso di aver fatto bene a parlare del gesto eroico di una donna militare, ma di aver sbagliato a chiamarla il maresciallo, perché trattasi di marescialla. È dura, ma ce la faremo.

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pubblicato su Metro il 20 settembre 2015