L'ingresso della fabbrica di Crespi d'Adda |
Faceva un certo effetto percorrendo
il padiglione Zero di Expo, trovare il modellino di casa propria nel plastico
di Crespi d’Adda, inserito tra le
pampas argentine e lo skyline delle megalopoli per mostrare la trasformazione del paesaggio dal rurale all’industriale
al terziario. Rischiando le critiche dei miei concittadini crespesi, ho sempre
avvertito una certa sopravvalutazione del ruolo di Crespi d’Adda nella storia dell’umanità,
pur avendo scelto di viverci attratta da un posto nel quale il luogo di lavoro
operaio, la fabbrica, ha avuto come caratteristica principale e evidente quello
di essere innanzitutto “bello”. Lo
aveva voluto così l’industriale tessile
Benigno Crespi alla fine dell’Ottocento, affidando ad un pool di
architetti la progettazione di un villaggio- fabbrica, città ideale del lavoro,
sul modello delle company town inglesi, ”, con criteri urbanistici
avveniristici per l’epoca e in una mescolanza un po’ folle di stili tra il neomedievale e il
neogotico, persino con incursioni khmer nel mausoleo del cimitero. Green in anticipo sui tempi, il posto
scelto nel triangolo allora disabitato creato dalla confluenza tra il Brembo e
l’Adda, permetteva di utilizzare l’energia idroelettrica.
La piscina pubblica. Archivio storico si Crespi d'Adda. |
All’estero dire: “Vivo in un sito Unesco, patrimonio dell’umanità”
definisce sempre un status e in effetti da quando nel 1995 è entrato nell’elenco
dei siti italiani, Crespi ha goduto di un suo discreto ritorno di visibilità
internazionale, anche se questo non si è tradotto in benefici evidenti per chi
ci vive. La realtà è che dal 2004
, da quando l’attività produttiva dopo più di un secolo si è fermata, una
grossa fetta di Crespi è una gigantesca desolata area dismessa. Se si guarda la
pianta del paese, il corpo dello stabilimento, 70mila metri quadri, è grande quanto
il villaggio, costruito secondo criteri di rigida divisione di ruolo e di
classe: villette quadrifamiliari per gli operai, bifamiliari per i quadri,
monofamiliari per i dirigenti, castello per i proprietari. In ogni caso all’epoca
lo scalino sociale più avvertito era quello tra gli operai privilegiati che
abitavano nelle case del “Crespi” e quelli che venivano da fuori. La mia vicina
ora novantenne, che aveva lavorato in fabbrica fin da ragazzina, raccontava
delle invidie delle altre operaie che facevano chilometri a piedi o in bicicletta, mentre lei era l’aristocratica
che viveva a due passi dai telai nelle case “con l’acqua corrente” e la piscina
pubblica (ora trasformata in magazzino). Quando io sono arrivata nel 2003 il
cotonificio, seppure in formato ridotto e dopo innumerevoli passaggi di
proprietà, ancora funzionava: dai 4500 operai degli anni d’oro si era passati a
300 ma era ancora percepibile che quello era il cuore pulsante a cui si
aggrappavano i crespesi, anche se la maggior parte non ci lavorava più.
Foto aerea di Crespi d'Adda. |
Dopo la chiusura delle
attività è come se in un
transatlantico si fosse spostato il carico e si fosse adagiato su un fianco,
una Costa Concordia urbanistica e sociale dove il peso della piccola comunità
di 450 abitanti non è sufficiente
per tenere in equilibrio un sistema complesso svuotato della sua funzione
originaria. Già dopo pochi mesi di abbandono il cotonificio ha iniziato ad
andare in rovina, anche perché l’immobiliare che nel frattempo ne era divenuta
proprietaria è fallita e nessuno se n’è più curato. Pezzo pezzo la fabbrica è
stata depredata, portati via arredi e parquet, rame e infissi liberty degli uffici,
macchinari , tegole. Nel frattempo hanno chiuso l’ufficio postale e l’unico
negozio, un piccolo supermercato Coop. Il paese per dieci anni è rimasto in
attesa di un salvatore, qualcuno che avesse il fegato di acquistare un’area
enorme e sottoposta ad una serie di vincoli di destinazione d’uso e di
salvaguardia, nella sostanziale impotenza
di un’amministrazione locale che al di là dei colori politici che si
sono succeduti era troppo debole per maneggiare un affare così grosso. Mentre a
livelli più alti, Stato, Regione o Provincia, nessuno si è preso la briga di
gestire una trasformazione che avrebbe certo richiesto molte risorse ma anche
molta “vision”, una moneta piuttosto scarsa. Negli anni si era parlato di
trasferire delle funzioni universitarie, poi di un temutissimo megacentro
commerciale, oppure di frazionare il tutto in residenza.
Alla fine un salvatore è
arrivato, o almeno così sembrava, nella persona di Antonio Percassi, pirotecnico
imprenditore bergamasco dalle multiformi
attività nel campo della distribuzione e del settore immobiliare. Una sorta di
versione aggiornata postmoderna e certo più spregiudicata del venerato Benigno
Crespi. Suo è il marchio di make up Kiko e portano la sua firma l’Oriocenter, una
grossa operazione immobiliare alle terme di San Pellegrino che va avanti tra
alterne vicende e vari villaggi outlet in giro per la penisola. Tra i vari
marchi che distribuisce in Italia l’ultimo arrivato è la Lego: suo sarà il
primo store monomarca di prossima apertura nel centro commericale di Arese, già
classificato il più grande d’Italia ed è lui l'artefice del prossimo temerario debutto in Italia di Starbucks. Ex calciatore, è il padrone dell’Atalanta e tra le altre
cose vuole costruire un mega centro vacanze all’imbocco del Gran Canyon. Insomma,
un imprenditore onnivoro e bulimico . La sua idea al momento dell’acquisto
della fabbrica nel 2013 era trasferire in 25mila metri quadri il quartier
generale delle sue attività, lasciando una piccola parte di museo (diventata minuscola
con l’andar del tempo, 300 metri quadri), una parte commerciale di 5000 metri
quadri e una alberghiera, l’immancabile spa e altre funzioni imprecisate. La prima cosa non da poco che ha fatto è
stata mettere in sicurezza le parti pericolanti, ripulire e sorvegliare l’area.
Ma tutta l’operazione ha contorni ancora nebulosi, forse troppo. È certa la
terziarizzazione del complesso simbolo della produzione industriale, resa
possibile dai nuovi piani regolatori, in una sorta di presa d’atto della
estinzione della manifattura in tutto il distretto bergamasco. Durante Expo il
ministro della cultura Franceschini è venuto di persona a benedire l’operazione,
che però nelle ultime settimane ha subito una battuta d’arresto in quello che
ha tutta l’aria di essere un gioco delle parti: un tira e molla sugli oneri di
urbanizzazione richiesti dal Comune che ha alzato il prezzo in previsione di
quello che sarà un impatto notevole, soprattutto in termini di flussi traffico.
A regime si parla di almeno mille persone in arrivo ogni giorno, su 450
abitanti, e tenuto contro che Crespi è collegata al resto del mondo solo da una
strada a fondo cieco la preoccupazione è giustificata. Particolarmente
controverso poi il progetto pervicacemente voluto da Percassi di trasformare un bosco di
30mila metri quadri in un parcheggio.
Il rendering del parcheggio che Percassi vuole realizzare. |
Il paese si è diviso in due
partiti, che potremmo rozzamente dividere negli innovatori che considerano
Percassi l’ultimo treno da prendere per non vedere naufragare fabbrica e con
essa la comunità e sono disposti a pagare qualche prezzo in termini di garanzie
ambientali in vista di una rigenerazione future-oriented, e i conservatori,
preoccupati dall’impatto di una gigantesca operazione ancora troppo vaga e
sostanzialmente gestita senza nessun processo di partecipazione pubblica, in
base al principio che quella è un’area privata e la libertà d’impresa è totale,
nei limiti della legge. Chi ha sempre vissuto in una sorta di città ideale, per
ora sfuggita a processi massicci di gentrificazione, teme che il cambiamento
minacci la propria qualità della vita. Soprattutto se confrontato con quello
che succede a non più di due chilometri di distanza dove il paesaggio della
pianura è stato inesorabilmente castigato dalla proliferazione morbosa di
centri commerciali ipertrofici e mesti insediamenti di villette a schiera dai
colori troppo vivaci, in cui domina l’invenduto.
In un bel documentario
diffuso poco tempo fa con astuto tempismo dallo studio di architettura che
gestisce il progetto per conto di Percassi, Gianni Berengo Gardin dopo trent’anni torna a fotografare la
colossale struttura della fabbrica. Il primo reportage lo aveva realizzato con
il cotonificio in piena attività, ora è un viaggio nell’abbandono tra macerie e
malinconici resti che hanno ancora una loro indiscutibile bellezza:
rappresentano un’idea paternalistica ma in fondo grandiosa del valore della
produzione e dei suoi attori, che in epoca di frantumazione della funzione
lavoro suscita indubbie nostalgie. Riprendere in mano quelle macerie e farne
qualcosa che abbia la stessa suggestione aggiornata ai tempi nostri sembra una
mission impossible, soprattutto senza una pianificazione dall’alto. Non ha
tutti i torti un crespese doc che così sintetizza la questione: “Se viene a
Crespi Percassi non deve essere solo un imprenditore, ma un imprenditore
illuminato come era Benigno Crespi”.
©Riproduzione riservata
In una versione precedente il pezzo è uscito su Cultweek il 27 febbraio 2016
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