martedì 24 febbraio 2015

La storia dimenticata di un uomo esemplare, Roberto Lepetit, industriale partigiano

Roberto Lepetit con la moglie Hilda e i due figli.






Ci sono vicende che per qualche misteriosa congiura delle circostanze restano nascoste, sepolte per decenni, custodite solo dal ricordo di pochi. Eppure gli ingredienti per farne una storia “di successo” ci sono tutti: profilo brillante del protagonista, un magnate dell’industria, il coraggio al limite della temerarietà, eccezionalità delle sue imprese al servizio della causa partigiana, fino ad un epilogo tragico e ancora per certi versi irrisolto.

La vita di Roberto Lepetit, industriale della chimica morto a 39 anni nel campo di concentramento di Ebensee il 4 maggio del 1945 sembra pronta per diventare un soggetto cinematografico per celebrare la storia di un uomo esemplare,  ma solo ora ritrova il suo filo narrativo nel saggio di Susanna Sala Massari , “Roberto Lepetit. Un industriale nella Resistenza. Archinto, p 298, 17 euro), che ricostruisce un’esistenza vorticosa, prima al servizio dell’impresa di famiglia e poi della Resistenza.  Il libro raccoglie moltissimi documenti restituendo una storia complessa  e lasciando aperti i punti più controversi: chi  tradì Lepetit? Fu fatto davvero tutto per salvarlo o qualcuno remò contro?

Ma partiamo dall’inizio. Le poche immagini mostrano un uomo dal sorriso franco sempre elegantissimo, scriminatura e brillantina, anche in vacanza sui prati di Cervinia con la moglie Hilda e i due figli piccoli Emilio e Guido. Roberto fin da giovanissimo è alla guida dell’azienda chimica fondata nel 1868 dal nonno. La famiglia Lepetit gravita tra Francia e Svizzera prima di stabilirsi in Italia. In seguito  la Lepetit diventa Ledoga, acronimo di Lepetit, Dollfus e Gannser, gli altri soci. E’ un grosso gruppo, con 16 stabilimenti e una rete commerciale internazionale, partito dai coloranti e poi sempre più orientato sui farmaci, soprattutto durante la gestione di Roberto. Un’azienda che Lepetit governa con piglio da capitano d’industria, centrato, diremmo oggi, sull’innovazione.
Il fascismo non gli piace, prende la tessera del partito per necessità legate ai suoi incarichi negli organismi imprenditoriali di rappresentanza,  ma nel 1942 viene espulso  dai Fasci per la sua evidente e mai nascosta insofferenza e avversione.

Le cose cambiano in modo radicale dopo l’8 settembre, quando Lepetit non esita un istante a decidere da che parte stare, una scelta nella quale mette tutto se stesso, le sue risorse e anche la sua impresa.  Una cronaca efficace e brillante di quei giorni tumultuosi  la racconta lui stesso in una lettera ad un amico di famiglia.

“Ti rifaccio la breve storia di questi ultimi tempi.
 
Lunedì 6: calata in furgone da Cervinia a qui
 
Mercoledì 8 mia andata a Milano

Giovedì 9 prime reazioni alla nuova situazione
 
Venerdì 10 sparatorie a Milano e avanzata delle truppe tedesche. Proclama Ruggero
 Sabato 11 invasione tedesca
 
Dom. 12 viaggio avventuroso Milano Garessio (nel cuneese, dove ha sede uno degli stabilimenti più importanti ndr)

Lun 13 presa in mano situazione Garessio. Conferenza a tutti i dipendenti. Fermata stabilimento. Nei giorni seguenti: studio per assicurare vitto e soldi (che sono scarsissimi) a tutti. Ieri poi a Torino conferenza con Guido (Zerilli) e Fichera per accordarci sul da farsi.
 Faccio di tutto in questi giorni anche le cose più impensate! Si vive in continua ansia. Qui la situazione nei primi giorni è tranquilla, nei dintorni- nelle vicinanze ci sono state sparatorie  e centri di resistenza. Pare che a Cuneo una divisione degli alpini continui a resistere.
Le montagne della nostra valle sono piene di fuggiaschi e di ex prigionieri. Sono in stretto contatto con un cappellano che fa miracoli-poveraccio!”

Lepetit aderisce al partito d’azione e collabora con il Cln in molti modi, inviando soldi, mezzi, documenti, medicinali. A Garessio si occupa di aiutare 360 ufficiali jugoslavi fuggiti da un campo di prigionia che si nascondono nelle casette sparse nei boschi dove vengono essiccate le castagne da cui l’azienda estrae il tannino. Porta lui stesso ai fuggiaschi cibo e indumenti, aiuta gli ufficiali a scappare in Svizzera o li mette in contatto con la Resistenza. Nel frattempo nella zona ci sono continue scorribande tra tedeschi e partigiani. Lepetit è in contatto diretto con i comandanti delle brigate e offre il suo supporto logistico. Il suo impegno non diminuisce quando si sposta vicino a Milano, perché per lui la situazione in Piemonte si è fatta pericolosa.  Tra mille azioni rischiose, Lepetit collabora alla missione Gbt, dal nome di  Giovan Battista Tolleri, capo dei servizi segreti badogliani in missione nell’Italia occupata, e ospita nei pressi di una sua villa una radio di collegamento con gli alleati.

Tutte le testimonianze restituiscono l’immagine di un uomo senza paura. Fa costruire 100mila cappelli da prete, ossia grossi chiodi per azioni di sabotaggio dei convogli tedeschi. Si  occupa di trasporto di armi e di partigiani feriti.  In un caso dà addirittura a un fuggiasco un suo documento come copertura. Un coraggio che a volte rasenta l’imprudenza e non tutti nella sua azienda, spesso da lui coinvolta in azioni di supporto,  condividono.  Il suo arresto avviene il 29 settembre 1944, nella sede di Milano dell’azienda progettata dall’amico Giò Ponti, in via Carlo Tenca. Da quel momento la vicenda di “Roby”  sembra sfuggire di mano.  Passa prima all’Hotel Regina, il comando delle SS,  dove viene interrogato duramente, poi a San Vittore. In molti sembrano mobilitarsi per tirarlo fuori di lì, dal suo manager Guido Zerilli, ad altri personaggi più ambigui, come lo spregiudicato doppiogiochista Luca Osteria, il “dottor Ugo”, agente segreto e insieme uomo della Gestapo a Milano che tra l’altro contribuì alla liberazione di Ferruccio Parri e Montanelli. Ad un certo punto Zerilli stoppa gli altri tentativi perché, dice lui, ha un contatto migliore. Ma Lepetit viene trasferito al campo di Bolzano. Qualcosa è andato storto e il libro riporta il dubbio di molti che in realtà davvero non fosse stato fatto tutto il possibile per liberarlo.
Roberto con Hilda

“Mia carissima Hilda, eccomi nel campo di concentramento dove siamo giunti ieri sera alle ore 20 dopo 66 ore (3 notti e 3 giorni) di viaggio in carro bestiame stivati come acciughe. Non era certo piacevole soprattutto ieri senza mangiare e senza bere neppure un goccio d’acqua. Ma ho superaro bene anche questa prova. Qui siamo sistemati bene…Appena giunti ci hanno tosato”. Nelle lettere da Bolzano, quasi tutte alla moglie, Lepetit mantiene sempre un tono lieve, da uomo di mondo, anche nei momenti di maggior sconforto, che però via via prendono il sopravvento. Come quando scrive: “Il terrore è andare più a Nord di qua”.  Nel campo  aiuta sempre tutti come può e si dà da fare per creare un dispensario di farmaci anche nella speranza che questo gli permetta di non andare “a Nord”. Ancora una volta non vanno a buon fine i molteplici tentativi per liberarlo. Il 21 novembre 1944, viene trasferito a Mauthausen e poi a Ebensee, dove muore probabilmente di tubercolosi.




La Croce di Giò Ponti a Ebensee 

Ad Ebensee  nel 1948 la moglie Hilda fece realizzare da Giò Ponti una croce monumentale dedicata, come recita l’iscrizione, “Al marito qui sepolto compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e fede…”.
All’inizio della sua corsa senza incertezze verso il suo destino, Lepetit, inossidabile nei suoi principi, lasciò un giudizio severo sui suoi colleghi di quegli anni: “I Pirelli, i Donegani, gli Agnelli meriterebbero una censura esemplare per avere consegnato l’industria italiana al fascismo e per il doppio gioco che avevano sempre fatto, aiutando i fascisti da una parte e i comunisti dall’altra”.

di Paola Rizzi

©Riproduzione riservata

Pubblicato sul sito dell'Anpi 

qui un altro articolo su Lepetit uscito su Cultweek

domenica 22 febbraio 2015

Contro le orde dell'Isis traghetti a prezzo politico dalla Libia

Prima che a Roma arrivassero davvero le orde barbariche, quelle degli hoolingans olandesi che hanno devastato Piazza di Spagna,  lunedì 19 febbraio avevo scritto una mia opinione su Metro sul tema  guerra alla Libia, Isis e immigrazione.   

Il Feroce Saladino 
Le orde barbariche dell’Isis sono pronte a varcare il Mediterraneo e abbeverare i loro pick-up nei distributori del Raccordo anulare. Non si sa ancora con quali mezzi avverrà l’invasione  ma potrebbero  mescolarsi alle centinaia di migliaia di migranti  che per lo più vengono ad annegare davanti alle nostre coste.

Se questo è il quadro, sta diventando senso comune che bombardare la Libia sarebbe una soluzione. Non mi arruolo tra gli esperti di geopolitica dell’ultima ora, osservo solo che l’avevamo già bombardata. Mi interessa di più la festosa disinvoltura con cui ora trattiamo immigrazione e terrorismo con gli stessi arnesi semantici. Ho sentito un fior di commentatore sostenere che le onlus non si possono occupare degli immigrati, primo perché facilmente infiltrabili, vedi Mafia Capitale, secondo perché impreparate a distinguere i terroristi dai poveracci. Come se finora, dall’11 settembre fino a Copenhagen, non avessimo capito due cose: che i terroristi o arrivano “da noi” in business class in tutta comodità, oppure non ne hanno bisogno perché sono già “qui”, sono i nostri vicini di casa, G2 o G3,  magari un po’ sbandati e perciò facilmente manipolabili.

A buon senso verrebbe da dire che puntare sull’inclusione e l’integrazione - piuttosto che alimentare il binomio musulmano –straniero anche di ventesima generazione uguale pericolo potenziale -potrebbe sottrarre cervelli deboli dalla radicalizzazione identitaria. Troppo “buonista” in un momento in cui a molti prudono le mani. Ma tornando all’emergenza immigrazione sovrapposta al pericolo terrorismo, se proprio si volesse separare il grano dal loglio, sembra difficile poterlo fare in mezzo al mare mentre la gente sta affogando. Se non ricordo male era D’Alema che diceva che sarebbe stato più conveniente, anche economicamente, istituire un regolare servizio di traghetti tra le coste del Nordafrica e l’Italia con biglietti a prezzo politico, in modo da controllare alla fonte chi parte e sparigliare le carte ai trafficanti di uomini.


Si chiama governare i problemi prima che ci crollino addosso, sono decenni che si dice e non si fa, ere geologiche in cui l’Europa, non solo l’Italia, ha rinunciato ad occuparsi di un'emergenza sociale che la riguarda, lasciando il campo ad altre agenzie più efficienti, i criminali. Se la tesi è che la situazione attuale è figlia di un eccesso di buonismo, è vero  il contrario: è  cattivista e soprattutto inefficiente ignorare il problema dei flussi migratori fino a che non entrano nelle nostre acque territoriali.  E sarebbe almeno pragmatico se un fronte unico dei volenterosi si costituisse non per gettare bombe,  ma per sottrarre milioni di uomini a trafficanti, scafisti, e jiahdisti à la page.
©Riproduzione riservata