Roberto Lepetit con la moglie Hilda e i due figli. |
Ci sono vicende che per qualche
misteriosa congiura delle circostanze restano nascoste, sepolte per decenni,
custodite solo dal ricordo di pochi. Eppure gli ingredienti per farne una
storia “di successo” ci sono tutti: profilo brillante del protagonista, un
magnate dell’industria, il coraggio al limite della temerarietà, eccezionalità
delle sue imprese al servizio della causa partigiana, fino ad un epilogo
tragico e ancora per certi versi irrisolto.
La vita di Roberto Lepetit,
industriale della chimica morto a 39 anni nel campo di concentramento di
Ebensee il 4 maggio del 1945 sembra pronta per diventare un soggetto
cinematografico per celebrare la storia di un uomo esemplare, ma solo ora
ritrova il suo filo narrativo nel saggio di Susanna Sala Massari , “Roberto
Lepetit. Un industriale nella Resistenza. Archinto, p 298, 17 euro), che ricostruisce
un’esistenza vorticosa, prima al servizio dell’impresa di famiglia e poi della
Resistenza. Il libro raccoglie moltissimi documenti restituendo una
storia complessa e lasciando aperti i punti più controversi: chi
tradì Lepetit? Fu fatto davvero tutto per salvarlo o qualcuno remò contro?
Ma partiamo dall’inizio. Le poche
immagini mostrano un uomo dal sorriso franco sempre elegantissimo, scriminatura
e brillantina, anche in vacanza sui prati di Cervinia con la moglie Hilda e i
due figli piccoli Emilio e Guido. Roberto fin da giovanissimo è alla guida
dell’azienda chimica fondata nel 1868 dal nonno. La famiglia Lepetit gravita
tra Francia e Svizzera prima di stabilirsi in Italia. In seguito la
Lepetit diventa Ledoga, acronimo di Lepetit, Dollfus e Gannser, gli altri soci.
E’ un grosso gruppo, con 16 stabilimenti e una rete commerciale internazionale,
partito dai coloranti e poi sempre più orientato sui farmaci, soprattutto
durante la gestione di Roberto. Un’azienda che Lepetit governa con piglio da
capitano d’industria, centrato, diremmo oggi, sull’innovazione.
Il fascismo non gli piace, prende la
tessera del partito per necessità legate ai suoi incarichi negli organismi
imprenditoriali di rappresentanza, ma nel 1942 viene espulso dai
Fasci per la sua evidente e mai nascosta insofferenza e avversione.
Le cose cambiano in modo radicale
dopo l’8 settembre, quando Lepetit non esita un istante a decidere da che parte
stare, una scelta nella quale mette tutto se stesso, le sue risorse e anche la
sua impresa. Una cronaca efficace e brillante di quei giorni
tumultuosi la racconta lui stesso in una lettera ad un amico di famiglia.
“Ti rifaccio la breve storia di
questi ultimi tempi.
Lunedì 6: calata in furgone da Cervinia a
qui
Mercoledì 8 mia andata a Milano
Giovedì 9 prime reazioni alla
nuova situazione
Venerdì 10 sparatorie a Milano e avanzata delle truppe
tedesche. Proclama Ruggero
Sabato 11 invasione tedesca
Dom. 12
viaggio avventuroso Milano Garessio (nel cuneese, dove ha sede uno degli
stabilimenti più importanti ndr)
Lun 13 presa in mano situazione
Garessio. Conferenza a tutti i dipendenti. Fermata stabilimento. Nei giorni
seguenti: studio per assicurare vitto e soldi (che sono scarsissimi) a tutti.
Ieri poi a Torino conferenza con Guido (Zerilli) e Fichera per accordarci sul
da farsi.
Faccio di tutto in questi giorni anche le cose più impensate! Si vive
in continua ansia. Qui la situazione nei primi giorni è tranquilla, nei
dintorni- nelle vicinanze ci sono state sparatorie e centri di resistenza.
Pare che a Cuneo una divisione degli alpini continui a resistere.
Le montagne
della nostra valle sono piene di fuggiaschi e di ex prigionieri. Sono in
stretto contatto con un cappellano che fa miracoli-poveraccio!”
Lepetit aderisce al partito d’azione
e collabora con il Cln in molti modi, inviando soldi, mezzi, documenti,
medicinali. A Garessio si occupa di aiutare 360 ufficiali jugoslavi fuggiti da
un campo di prigionia che si nascondono nelle casette sparse nei boschi dove
vengono essiccate le castagne da cui l’azienda estrae il tannino. Porta lui
stesso ai fuggiaschi cibo e indumenti, aiuta gli ufficiali a scappare in
Svizzera o li mette in contatto con la Resistenza. Nel frattempo nella zona ci
sono continue scorribande tra tedeschi e partigiani. Lepetit è in contatto diretto con i
comandanti delle brigate e offre il suo supporto logistico. Il suo impegno non
diminuisce quando si sposta vicino a Milano, perché per lui la situazione in
Piemonte si è fatta pericolosa. Tra mille azioni rischiose, Lepetit collabora
alla missione Gbt, dal nome di Giovan Battista Tolleri, capo dei servizi
segreti badogliani in missione nell’Italia occupata, e ospita nei pressi di una
sua villa una radio di collegamento con gli alleati.
Tutte le testimonianze restituiscono
l’immagine di un uomo senza paura. Fa costruire 100mila cappelli da prete,
ossia grossi chiodi per azioni di sabotaggio dei convogli tedeschi. Si
occupa di trasporto di armi e di partigiani feriti. In un caso dà
addirittura a un fuggiasco un suo documento come copertura. Un coraggio che a
volte rasenta l’imprudenza e non tutti nella sua azienda, spesso da lui
coinvolta in azioni di supporto, condividono. Il suo arresto
avviene il 29 settembre 1944, nella sede di Milano dell’azienda progettata dall’amico
Giò Ponti, in via Carlo Tenca. Da quel momento la vicenda di “Roby”
sembra sfuggire di mano. Passa prima all’Hotel Regina, il comando delle
SS, dove viene interrogato duramente, poi a San Vittore. In molti
sembrano mobilitarsi per tirarlo fuori di lì, dal suo manager Guido Zerilli, ad
altri personaggi più ambigui, come lo spregiudicato doppiogiochista Luca
Osteria, il “dottor Ugo”, agente segreto e insieme uomo della Gestapo a Milano
che tra l’altro contribuì alla liberazione di Ferruccio Parri e Montanelli. Ad
un certo punto Zerilli stoppa gli altri tentativi perché, dice lui, ha un
contatto migliore. Ma Lepetit viene trasferito al campo di Bolzano. Qualcosa è
andato storto e il libro riporta il dubbio di molti che in realtà davvero non
fosse stato fatto tutto il possibile per liberarlo.
Roberto con Hilda |
“Mia carissima Hilda, eccomi nel
campo di concentramento dove siamo giunti ieri sera alle ore 20 dopo 66 ore (3
notti e 3 giorni) di viaggio in carro bestiame stivati come acciughe. Non era
certo piacevole soprattutto ieri senza mangiare e senza bere neppure un goccio
d’acqua. Ma ho superaro bene anche questa prova. Qui siamo sistemati
bene…Appena giunti ci hanno tosato”. Nelle lettere da Bolzano, quasi tutte alla
moglie, Lepetit mantiene sempre un tono lieve, da uomo di mondo, anche nei
momenti di maggior sconforto, che però via via prendono il sopravvento. Come
quando scrive: “Il terrore è andare più a Nord di qua”. Nel campo
aiuta sempre tutti come può e si dà da fare per creare un dispensario di
farmaci anche nella speranza che questo gli permetta di non andare “a Nord”.
Ancora una volta non vanno a buon fine i molteplici tentativi per liberarlo. Il
21 novembre 1944, viene trasferito a Mauthausen e poi a Ebensee, dove muore
probabilmente di tubercolosi.
La Croce di Giò Ponti a Ebensee |
Ad Ebensee nel 1948 la moglie Hilda fece realizzare da Giò Ponti una croce monumentale dedicata, come recita l’iscrizione, “Al marito qui sepolto compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e fede…”.
All’inizio della sua corsa senza incertezze verso il suo destino, Lepetit, inossidabile nei suoi principi, lasciò un giudizio severo sui suoi colleghi di quegli anni: “I Pirelli, i Donegani, gli Agnelli meriterebbero una censura esemplare per avere consegnato l’industria italiana al fascismo e per il doppio gioco che avevano sempre fatto, aiutando i fascisti da una parte e i comunisti dall’altra”.
di Paola Rizzi
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Pubblicato sul sito dell'Anpi
qui un altro articolo su Lepetit uscito su Cultweek