I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle |
“Complimenti, sembri più giovane”. Mi sono sentita rivolgere questa frase pochi giorni fa ma a malincuore ho represso l’istintivo sentimento di gratitudine nei confronti dell’interlocutore. Fresca della lettura de Il bello dell’età. Manifesto contro l’ageismo (Corbaccio, 20 euro) della giornalista americana Ashton Applewhite, ho subito avvertito il pregiudizio insito nel complimento, anche se nel profondo il lato oscuro di me si rallegrava. Ma il ragionamento di Applewhite è semplice e ineccepibile: perché dovrebbe essere meglio dimostrare meno dell’età che si ha? Cos’ha che non va l’età reale?
La
verità è che la vecchiaia è l’ultimo grande tabù, catalizzatore di stereotipi
negativi e di correlate discriminazioni. Ageismo è un termine introdotto nel
1969 dal geriatra Butler per definire, come tutti gli ismi, il disprezzo e la
svalutazione connessa ad una condizione naturale come l’invecchiamento. Ora,
dopo l’era del woman pride, del gay pride, e black pride, è giunta l’ora
dell’age pride, annuncia Applewhite, ultima frontiera della battaglia contro
tutte le oppressioni.
Non
è un caso che il tema stia diventando di moda proprio nel momento in cui i baby
boomers si affacciano allarmati alla terza età, dopo aver vissuto una vita
incentrata sul mito della giovinezza. Si moltiplicano libri e blog a tema, come
quello di Lidia Ravera, Il terzo
tempo, che in un dialogo con i lettori dispensa pillole
di vecchiaia felice, anche con suggerimenti molto pratici su dieta e sport,
sulla scorta del suo ultimo
omonimo romanzo (Bompiani, 19 euro) che tratta di vecchie e vecchi
non convenzionali. Tema condiviso dal saggio di Marco Aime e Luca Borzani Invecchiano
solo gli altri (Einaudi, 13 euro) in questo caso centrato
sull’indisponibilità dei baby boomers ingrigiti a lasciare spazio ai giovani
assieme alla sostanziale impreparazione della società ad affrontare un futuro
in cui gli over 65 saranno legioni.
La
plastica conferma e insieme smentita dell’ageismo imperante l’abbiamo appena
vissuta con la coppia Brigitte-Macron, lui “troppo giovane”, lei “troppo
vecchia“, un ageismo in questo caso condito di sessismo ovviamente, ma dove il
dato anagrafico diventa discrimine bidirezionale,verso l’alto e verso il basso.
“Old is the new black” si legge sulla maglietta di una modella agée nel blog Advanced
style dedicato allo street style delle pantere grigie.
I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle |
«Perché
non lo sapevo? Perché questi dati positivi sulla vecchiaia sono tenuti segreti
e se ne parla solo in termini di declino, costi sociali e guerra
intergenerazionale?» si è chiesta Applewhite, 63 enne decisamente sbarazzina.
Gli esempi che porta sono moltissimi, arzilli vecchietti capaci di grandi
performance e di preziosi contributi in termini di esperienza e lungimiranza
nel contesto sociale e nel mondo del lavoro. Se glielo si permette. Rivelatore
quello che ha dichiarato Natalia Tanner, prima donna afromericana a frequentare
medicina a Chicago e la prima pediatra nera di Detroit: alla domanda cosa le ha
più pesato tra razzismo, sessismo e ageismo lei ha risposto l’età.«Molti
pensano che quando hai la mia età, 85 anni, sei debilitato, mentalmente
fisicamente».
Ma l’ageismo può cominciare
molto presto: nella Silicon Valley, che da Eldorado dell’innovazione si sta
rivelando anche laboratorio avanzato di nuove forme di controllo e di
oppressione, i manager over 50 sono spinti ad un massiccio uso di botox e
blefaroplastica, felpa e infradito per mimetizzarsi con i nativi digitali,
nonostante e a prescindere dalle loro competenze. Una negazione
dell’invecchiamento che naturalmente colpisce più duro le donne, spinte dal
martellamento continuo
delle multinazionali della cosmetica. “Ma per quanto ci gonfiamo di botox, non
saremo mai più giovani” è la conclusione lapalissiana di Applewhite, invitando
a trovare ispirazione nel lavoro
dell’artista israeliana Noa Zilberman, che ha creato una linea di gioielli
(Wrinkle) che enfatizzano le rughe invece di nasconderle.
©Riproduzione riservata
Pubblicato il 3 giugno 2017 su Cultweek
Punto
altamente critico è quello del conflitto intergenerazionale: i vecchi tolgono
risorse e posti di lavoro ai giovani. «Sarebbe come dire che l’ingresso delle
donne nel mondo del lavoro nel XX secolo ha tolto posti di lavoro agli uomini.
Non è stato così, semmai il problema è il mercato del lavoro: se è forte, tutte
le età ne beneficiano». Se è debole, è conveniente per chi detiene le redini
del sistema mettere gli uni contro gli altri, donne contro uomini, giovani
contro vecchi, o italiani contro stranieri per tenere basse rivendicazioni e
salari. Secondo dati citati dalla Applewhite, la perdita di competenze e
talenti maturi alla fine si traduce in un costo anche economico per le aziende.
E molte ricerche mostrano che gli anziani al lavoro sono meno veloci ma
sbagliano di meno. Guardato in prospettiva, visto i cattivi pronostici del
welfare nel mondo occidentale e l’allontanarsi dell’ipotesi di avere una
pensione decente, diventa urgente un ripensamento globale che valuti la
convenienza di tenere più a lungo possibile al lavoro gli anziani.
Un
termine su cui Applewhite si esercita per parecchie pagine: in realtà ciascuno
di noi è anziano rispetto a qualcun altro, anche un bambino di otto anni
rispetto a uno di tre. Meglio usare l’espressione “più vecchio”, quindi
espressione relativa, «perché l’età è uno spettro in un continuum, la vita e di
fondo siamo tutti “vecchi in formazione”».
I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle |
Pubblicato il 3 giugno 2017 su Cultweek