lunedì 10 luglio 2017

Ageismo, il nuovo tabù è la vecchiaia




I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle


“Complimenti, sembri più giovane”. Mi sono sentita rivolgere questa frase pochi giorni fa ma a malincuore ho represso l’istintivo sentimento di gratitudine nei confronti dell’interlocutore. Fresca della lettura de Il bello dell’età. Manifesto contro l’ageismo (Corbaccio, 20 euro) della giornalista americana Ashton Applewhite, ho subito avvertito il pregiudizio insito nel complimento, anche se nel profondo il lato oscuro di me si rallegrava. Ma il ragionamento di Applewhite è semplice e ineccepibile: perché dovrebbe essere meglio dimostrare meno dell’età che si ha? Cos’ha che non va l’età reale?
La verità è che la vecchiaia è l’ultimo grande tabù, catalizzatore di stereotipi negativi e di correlate discriminazioni. Ageismo è un termine introdotto nel 1969 dal geriatra Butler per definire, come tutti gli ismi, il disprezzo e la svalutazione connessa ad una condizione naturale come l’invecchiamento. Ora, dopo l’era del woman pride, del gay pride, e black pride, è giunta l’ora dell’age pride, annuncia Applewhite, ultima frontiera della battaglia contro tutte le oppressioni.

Non è un caso che il tema stia diventando di moda proprio nel momento in cui i baby boomers si affacciano allarmati alla terza età, dopo aver vissuto una vita incentrata sul mito della giovinezza. Si moltiplicano libri e blog a tema, come quello di Lidia Ravera, Il terzo tempo, che in un dialogo con i lettori dispensa pillole di vecchiaia felice, anche con suggerimenti molto pratici su dieta e sport, sulla scorta del suo ultimo omonimo romanzo (Bompiani, 19 euro) che tratta di vecchie e vecchi non convenzionali. Tema condiviso dal saggio di Marco Aime e Luca Borzani Invecchiano solo gli altri (Einaudi, 13 euro) in questo caso centrato sull’indisponibilità dei baby boomers ingrigiti a lasciare spazio ai giovani assieme alla sostanziale impreparazione della società ad affrontare un futuro in cui gli over 65 saranno legioni.
La plastica conferma e insieme smentita dell’ageismo imperante l’abbiamo appena vissuta con la coppia Brigitte-Macron, lui “troppo giovane”, lei “troppo vecchia“, un ageismo in questo caso condito di sessismo ovviamente, ma dove il dato anagrafico diventa discrimine bidirezionale,verso l’alto e verso il basso. “Old is the new black” si legge sulla maglietta di una modella agée nel blog Advanced style dedicato allo street style delle pantere grigie.
I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle
Il merito di Applewhite in questa discussione è di approfondire la questione da tutti i lati, salute, lavoro, sesso, anche la morte, senza scorciatoie e visioni edulcorate. Perché l’orgoglio anziano deve comunque fare i conti con quella rotula di cui hai ignorato l’esistenza per 60 anni e che improvvisamente si manifesta sotto forma di dolore, o quella ruga che per quanto la spiani ti ricorda lo scorrere del tempo. E poi la solitudine, la perdita delle persone care, la memoria che latita. E l’esclusione traumatica dal mondo del lavoro. Da qui in realtà è partita con la sua ricerca Applewhite, per scoprire strada facendo per esempio che i momenti più felici della vita sono all’inizio e dopo i sessanta, almeno secondo un’indagine dell’Università di Warwick e del Dartmouth College, condotta su 2 milioni di persone di ottanta Paesi diversi. Oppure che gli over 65, secondo uno studio del General social survey americano iniziato nel 1972 sono mediamente i più soddisfatti del loro lavoro. O che il loro ruolo nel volontariato o semplicemente come “nonni” che contribuiscono al welfare famigliare vale punti di pil.
«Perché non lo sapevo? Perché questi dati positivi sulla vecchiaia sono tenuti segreti e se ne parla solo in termini di declino, costi sociali e guerra intergenerazionale?» si è chiesta Applewhite, 63 enne decisamente sbarazzina. Gli esempi che porta sono moltissimi, arzilli vecchietti capaci di grandi performance e di preziosi contributi in termini di esperienza e lungimiranza nel contesto sociale e nel mondo del lavoro. Se glielo si permette. Rivelatore quello che ha dichiarato Natalia Tanner, prima donna afromericana a frequentare medicina a Chicago e la prima pediatra nera di Detroit: alla domanda cosa le ha più pesato tra razzismo, sessismo e ageismo lei ha risposto l’età.«Molti pensano che quando hai la mia età, 85 anni, sei debilitato, mentalmente fisicamente».

Ma l’ageismo può cominciare molto presto: nella Silicon Valley, che da Eldorado dell’innovazione si sta rivelando anche laboratorio avanzato di nuove forme di controllo e di oppressione, i manager over 50 sono spinti ad un massiccio uso di botox e blefaroplastica, felpa e infradito per mimetizzarsi con i nativi digitali, nonostante e a prescindere dalle loro competenze. Una negazione dell’invecchiamento che naturalmente colpisce più duro le donne, spinte dal martellamento continuo delle multinazionali della cosmetica. “Ma per quanto ci gonfiamo di botox, non saremo mai più giovani” è la conclusione lapalissiana di Applewhite, invitando a trovare ispirazione nel lavoro dell’artista israeliana Noa Zilberman, che ha creato una linea di gioielli (Wrinkle) che enfatizzano le rughe invece di nasconderle.

Punto altamente critico è quello del conflitto intergenerazionale: i vecchi tolgono risorse e posti di lavoro ai giovani. «Sarebbe come dire che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro nel XX secolo ha tolto posti di lavoro agli uomini. Non è stato così, semmai il problema è il mercato del lavoro: se è forte, tutte le età ne beneficiano». Se è debole, è conveniente per chi detiene le redini del sistema mettere gli uni contro gli altri, donne contro uomini, giovani contro vecchi, o italiani contro stranieri per tenere basse rivendicazioni e salari. Secondo dati citati dalla Applewhite, la perdita di competenze e talenti maturi alla fine si traduce in un costo anche economico per le aziende. E molte ricerche mostrano che gli anziani al lavoro sono meno veloci ma sbagliano di meno. Guardato in prospettiva, visto i cattivi pronostici del welfare nel mondo occidentale e l’allontanarsi dell’ipotesi di avere una pensione decente, diventa urgente un ripensamento globale che valuti la convenienza di tenere più a lungo possibile al lavoro gli anziani.
Un termine su cui Applewhite si esercita per parecchie pagine: in realtà ciascuno di noi è anziano rispetto a qualcun altro, anche un bambino di otto anni rispetto a uno di tre. Meglio usare l’espressione “più vecchio”, quindi espressione relativa, «perché l’età è uno spettro in un continuum, la vita e di fondo siamo tutti “vecchi in formazione”».


I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle

 ©Riproduzione riservata

Pubblicato il 3 giugno 2017 su Cultweek

domenica 9 luglio 2017

Atai, 22 anni, dall'Afghanistan all'Italia sotto un camion sognando scuole e cultura

La scuola di inglese e informatica che Atai Walimohammad aveva aperto a 16 anni nel suo villaggio. 

La sua nuova vita Atai l’ha conquistata dopo aver bucato il tubo della benzina sotto il camion a cui era aggrappato da 22 ore. Non ce la faceva più: «Volevo che si fermasse». Appena il mezzo ha rallentato lui ha mollato e si è messo a correre, non sapeva dove fosse. Era in Puglia, era il 2012 e lui aveva solo 16 anni, una vita già zeppa di sogni e tragedie, iniziate nel suo villaggio in Afghanistan, pattugliato di giorno dai governativi e di notte dai talebani. Oggi Atai Walimohammad ha 21 anni, sta finendo a Pavia la laurea triennale in scienza della mediazione linguistica, sa sei lingue (compreso l’arabo e il bengalese) e il suo lavoro è occuparsi di richiedenti asilo nei sei centri gestiti dall’associazione Lia che opera in Puglia e in Lombardia. Lui coordina la start up, l’organizzazione logistica, e il primo approccio nella gestione dei rapporti con le comunità locali che spesso mal volentieri ospitano questi centri. Insegna l’italiano e conduce laboratori artistici per i rifugiati, la scultura è un’altra sua passione. «Ho imparato da solo, all’inizio facevo cose bruttine, ora vedo che piacciono, mi definirei un artistino, non proprio un artista».  

Atai con una delle sue sculture 
Atai vuole che la sua storia sia conosciuta, va nelle scuole a raccontarla «perchè la gente capisca come mai noi rifugiati veniamo qui».  Una vicenda, la sua  che racconta di come in 17 anni di guerra in Afghanistan le cose siano solo peggiorate, di un padre medico ucciso dai talebani perché invitava i bambini a non andare nelle madrasse ma a scuola, di un fratello medico torturato fino a impazzire perché non voleva mettersi al servizio esclusivo dei talebani (ora è a Crotone, in attesa di cure), di un fratellino fuggito in Germania. E poi c’è lui estroverso e affamato di cultura, che ha imparato tutto da solo leggendo i libri del padre, quando ormai le scuole non c’erano più: «La mia più grande gioia era aver aperto una scuola di inglese e informatica nel mio villaggio, con l’aiuto dell’esercito afgano e americano, per strappare i bambini alle madrasse. Venivano in tanti».  Ma poi sono arrivati i talebani, hanno distrutto tutto e lui è fuggito, prima in Iran, poi in Turchia, in Grecia, nove mesi di odissea fino a quel viaggio sotto il camion.  Prima è stato accolto in una comunità per minori a Lecce, poi in un centro di Foggia. La svolta quando la sua conoscenza autodidatta delle lingue lo ha reso utile come interprete e mediatore, fino a farne una professione. «Sono stato fortunato, ma la legge italiana non aiuta».


Atai nel centro di Capriate 
 Atai ha una visione chiara della situazione dell’accoglienza in mano ai privati: «Lo  Stato dovrebbe fare molti più controlli nei centri gestiti dalle cooperative e dai privati dove i richiedenti stanno fino a due anni. Invece i rifugiati vengono trattati dallo Stato come oggetti, spostati di qua e di là. Ci sono posti dove gli ospiti sono abbandonati, non fanno nulla e così l’integrazione è impossibile. E questo alimenta sospetti su tutta la gestione, anche su centri come i nostri, dove  insegniamo l’italiano dal primo giorno e dove i soldi non finiscono tutti in tasca ai gestori, ma vengono investiti per i ragazzi». Atai nutre molto aspettative sul decreto Minniti, soprattutto per l’istituzione dei centri per il rimpatrio: «Non ha senso che quando viene respinta la richiesta di asilo, in una percentuale molto alta,  la gente poi finisca un buco nero, ad alimentare disagio e criminalità. Spero che questi centri funzionino davvero». Ma non mancano le critiche: «Fare accordi con la Libia è assurdo per noi che tutti i giorni ascoltiamo i racconti delle torture inflitte ai migranti». La mission di Atai ora è anche riaccendere i riflettori sulla situazione del suo paese: «Oggi è 40 volte peggio di 17 anni fa. In Afghanistan ci sono 45 paesi (anche l’italia ndr), possibile che non riescano a sconfiggere i talebani? In più ora c’è anche l’Isis. Quando Trump ha mandato la madre di tutte le bombe testimoni dicono che quelli dell’Isis erano stati avvertiti. A chi giova?».


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Pubblicato il 19 giugno 2016 su Metro