domenica 19 novembre 2017

La geopolitica del gabinetto



Nel 2011 Anita Narre, gettato uno sguardo alla casa dell’uomo che aveva appena sposato, nel villaggio di Jeetudhana, in India, girò i tacchi e se ne andò giurando che non ci avrebbe più messo piede finchè il marito non l’avesse dotata di un bagno. Anita è diventata un’eroina nazionale, omaggiata anche dal primo ministro di allora. Oggi lei, che ha ottenuto il suo wc, dice che la sua battaglia è stata vana e nel villaggio il posto dove fare i bisogni resta la foresta. Anita non è sola: ad agosto  una donna dell’ Uttar Pradesh che ha ottenuto il divorzio perchè il marito non voleva il gabinetto.  

La storia di Anita è ora diventata un film, “Toilet. A Love Story”, prodotto e interpretato  dalla star di Bollywood Akshay Kumar che lunedì sul Guardian, presentando il World Toilet Day, la giornata mondiale del wc voluta dall’ Onu che cade il 19 novembre, ha raccontato perchè si è gettato a capofitto nel progetto. Non solo fiction ma un atto di denuncia per un problema igienico di portata mondiale, particolarmente sentito in India dove 564 milioni di persone non hanno un posto dove fare i loro bisogni.  Il presidente Modi ne ha fatto uno degli obiettivi della nazione, enunciato nel suo primo discorso pubblico: entro il 2 ottobre  2019 tutti gli indiani dovranno andare al gabinetto e non nel bosco, investimento 29 miliardi di dollari. E squadre governative vanno in giro a convincere la gente che la “open defecation” diffonde batteri e malattie fatali soprattutto per i bambini. Ed è pericolosa per le donne e questo spiega perchè sono loro a ribellarsi: nei campi dove si appartano sono vittime di violenze e aggressioni sessuali: pochi mesi fa due ragazze sono state stuprate e uccise.   

mercoledì 15 novembre 2017

Lo smemorato che regala sorrisi ai bambini




Un consiglio spassionato. Se state vivendo un momento nero o vedete solo il bicchiere mezzo vuoto, guardate in rete uno dei video in cui Andrea Caschetto, un bel ragazzo siciliano di 27 anni, mette in pratica la sua arte del sorriso, che lo ha portato negli orfanotrofi di tutto il mondo allo scopo di far ridere i bambini. O quello in cui fa scoppiare in una risata liberatoria l’intera assemblea dell’Onu riunita nella giornata mondiale della felicità del 2016, che lo ha voluto tra gli oratori, come ambasciatore del sorriso. «Quando mi hanno contattato sulla pagina facebook credevo fosse uno scherzo, naturalmente, invece era vero».

 Nella vita di Andrea, che non ha mai conosciuto il padre ed è stato cresciuto da una madre tostissima, c’è un prima e un dopo: a 15 anni è stato operato di un tumore al cervello e da allora ha perso la memoria a breve termine: «Volevo fare il magistrato, ma mi hanno detto che non sarei più riuscito a studiare come si deve. A scuola mi chiamavano memoria zero». La vera svolta è avvenuta quando è andato con la scuola in un orfanotrofio sudafricano. «Quando sono tornato mi sono accorto che diversamente dal solito mi ricordavo quasi tutto. Mi hanno spiegato che la memoria emotiva è molto potente e da allora non mi sono più fermato».

martedì 10 ottobre 2017

I vestiti-robot di Anouk Wipprecht hanno un'anima

Anouk Wipprecht indossa il suo spider dress

Anouk Wipprecht  è una danese di 32 anni con l’aspetto da teenager, una geek girl indefinibile che mescola moda e tecnologia, più artista che  fashion designer, anche se a lei piace definirsi FashionTech designer avvezza al cacciavite più che all’ago e al filo. Alla settimana della moda milanese si è presentata invitata da Meet the Media Guru per mostrare le sue creazioni poetiche e provocatorie: abiti-robot animati, tessuti intelligenti capaci di comunicare stati emotivi, realizzati con stampanti in 3D. Come lo spider-dress, l’abito ragno rivestito di sensori di prossimità e di zampe elettroniche che si impennano quando qualcuno di avvicina troppo. O lo smoke-dress, che emette fumo sempre in caso di invasioni di campo nel proprio spazio fisico ed emozionale. «Mi sono ispirata al polpo, che emette l’inchiostro per allontanare gli indesiderati. La natura mi ispira molto».
Tra i suoi progetti c’è anche la collaborazione con la pop singer Victoria Modesta, amputata ad una gamba, per la quale ha realizzato protesi ipertecnologiche.
Sì, è stato molto interessante, di solito la disabilità è legata alla vergogna, si cerca di nasconderla, mentre nel caso di Viktoria abbiamo utilizzato la protesi per inserire dispositivi musicali e sensori e darle una forma speciale. 

domenica 10 settembre 2017

Gallizio, il farmacista situazionista di Alba che si fece re dei rom

Gallizio con gli orecchini.
Ci sono molti motivi per vedere la bellissima mostra in corso alla Triennale, curata da Massimiliano Gioni, Terra Inquieta, (fino al 20 agosto) dedicata al tema dei temi della contemporaneità, le migrazioni. Uno, certamente non il primo, ma sorprendente e laterale, è riscoprire un tipo originale, la cui vicenda incrocia la provincia profonda piemontese con il suo accento dolce e strascicato, il nomadismo zingaro e la rapida epopea del situazionismo, il movimento radicale politico-artistico  fondato 60 anni fa (28 luglio 1957) che tanto piacque al maggio francese e ai sessantottini. Questa specie di sovversivo mite ha il volto segnato e buono, per nulla maledetto, di Pinot Giuseppe Gallizio, vita intensissima  e breve  per colpa di un infarto (1902-1964), nato e vissuto ad Alba, farmacista per dieci anni, poi produttore di caramelle, archeologo,  erborista, partigiano, consigliere comunale, democristiano, comunista, attivista, che superati i 50 anni si scopre artista e pittore e inventa tra le altre cose la pittura industriale, ossia rotoli di tela dipinta che lui vende a metro per smontare l’idea commerciale e elitaria dell’arte. Molto apprezzato dalla critica Carla Lonzi, è stato un protagonista fulminante di una stagione artistica di cui si è persa per strada la memoria. 
La cantina di casa sua ad Alba, battezzata Laboratorio Sperimentale, diventò per qualche anno catalizzatore di personaggi che incrociavano il movimento lettrista, il gruppo Cobra, il Bauhaus immaginista, poi confluiti nell’internazionale situazionista (IS), come Guy Debord, l’autore del libro manifesto La società dello spettacolo, il danese Asger Jorn, Enrico Bay, Constant, Piero Simondo, Pegeen Guggenheim, figlia di Peggy. Tutti nettamente più giovani di lui, alcuni poco più che ragazzi, ai quali il farmacista Gallizio si avvicinò con entusiasmo infantile.  


Il tazebao dedicato ai rom di Alba.

Alla Triennale non è tanto il pittore autodidatta e ribelle in mostra, ma la sua passione per il nomadismo e quindi, con la coerenza e il candore del personaggio, per i nomadi in carne ed ossa che attraversavano il corridoio tra Francia e Italia. Un luogo di sosta era appunto Alba dove le carovane si accampavano vicino al mercato. Quando il sindaco conservatore li cacciò a metà degli anni ‘50  Gallizio semplicemente regalò ai sinti un suo terreno lungo il Tanaro perché costruissero il loro campo, che poi si chiamò campo Pinot Gallizio. Della sua battaglia vicino alle “tribù” in consiglio comunale e fuori restano diverse fotografie e una sorta di tazebao che Pinot esponeva sulla vetrina della farmacia intitolato: “L’uomo è sempre l’uomo. É iniziata la grande battaglia per la sosta degli zingari” e in cui si ipotizza per lui la possibilità di diventare “il gran capo di più di 1.200.000 zingari”. In mostra anche una foto famosa che lo ritrae con due enormi orecchini da zingara indossati orgogliosamente e che gli guadagnarono l’appellativo tra gli albesi perplessi di re degli zingari. Non è tutto, naturalmente, perché Gallizio, da bravo situazionista,  l’intreccio tra arte e politica per creare “situazioni” lo prendeva sul serio: alla Triennale c’è anche il modellino ideato da Constant Nieuwenhuys, artista e architetto olandese, che ispirò la sua ricerca su New Babylon, l’anti-città paradossale pensata per la nuova umanità nomade, l’homo ludens liberato da ogni schiavitù, compresa quella della sedenterietà. Quale terreno di sperimentazione migliore di un’idea così radicale e folle della progettazione di un campo nomadi? Immaginiamoci quindi Constant, che nel 1956, invitato da Gallizio, visita il campo sinti di Alba realizzato sul terreno del farmacista- pittore. Racconta: «Di quello spazio tra le roulotte, che avevano chiuso con tavole e bidoni di benzina, avevano fatto un recinto, una “Città dei Gitani”. Quel giorno ho concepito il progetto di un accampamento permanente per i Gitani di Alba e questo progetto è all’origine della serie di maquettes di New Babylon. Di una New Babylon dove si costruisce sotto una tettoia, con l’aiuto di elementi mobili, una dimora comune; un’abitazione temporanea, rimodellata costantemente; un campo nomade su scala planetaria». Il modello rimase tale e il campo nomadi fu poi spostato, anche a causa delle ricorrenti piene del Tanaro. 


Il progetto di campo nomadi per i rom di Alba realizzato da Constant.

Intanto ad Alba, in casa di Gallizio, e poi in un minuscolo paese sulle alpi marittine, a Cosio di Arroscia, si svolge l’avventurosa vicenda dell’internazionale situazionista che tra scissioni, espulsioni e suicidi si protrasse per una quindicina d’anni. Proprio in questi giorni è uscito per il Melangolo Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione: nasce il situazionismo di Donatella Alfonso, che racconta con leggerezza questa storia inseguendo i protagonisti, le loro esistenze scombinate, i litigi, gli amori e il prodigio per cui un gruppo cosmopolita di artisti e intellettuali giovani (a parte Gallizio), un po’ bohémien, grandi bevitori, squattrinati e anarchici si ritrovò in un posto sconosciuto, salvo al pittore  Piero Simondo che ci era nato, per fondare un movimento che ha avuto una fascinazione così grande su varie generazioni da diventare un modo di dire, anche se ormai pochi sanno di cosa parlano quando usano la parola  “situazionista”. Alfonso ricostruisce il prima e il dopo di quel congresso di fondazione del 28 luglio 1957, svoltosi nel retro di un bar, bevendo quantità considerevoli di “cosiate”, il vino locale come pare lo avesse battezzato Debord. 
Per i curiosi e gli irriducibili, in occasione del sessantesimo, Cosio ospita la sera del 28 luglio musica, bevute e cibo, mentre sabato 29 verranno presentati alcuni libri sul tema tra cui quello di Alfonso. Ma il clou sarà la mattina di sabato con il “Non-convegno Situazionista. Punto della Situazione n° 4”. Non c’è scaletta naturalmente e chiunque può parlare. Come spiega Roberto Massari, uno degli organizzatori, una ventina di studiosi e post-situazionisti ancora in circolazione, «all’ultimo non-convegno c’è chi ha fatto una lunga e dotta relazione filosofica e chi ha soffiato in una trombetta». 

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Qui il link al documentario Dèrive Gallizio su Pinot e i situazionisti di Alba 


Pubblicato su Cultweek il 25 luglio 2017

mercoledì 2 agosto 2017

Autocoscienza anni '70 e tutor: così il maschio si emancipa dalla violenza


Anche l’uomo più disgraziato può usufruire di qualche dividendo del patriarcato, sostiene la sociologa australiana 73enne Raewyn Connell,  autorità  mondiale sul tema del “maschile”,  nata Robert e divenuta  donna a tarda età. E cosa può capitare  quando  l’uomo, disgraziato o meno, vede rosicchiato il suo residuo bottino di privilegi da una compagna disobbediente, ribelle, “emancipata”?  Magari le tira due ceffoni e cerca di rimetterla in riga. Un evergreen sempre attuale: «Nelle scuole superiori  5 ragazzi su 10 trovano normale dare degli schiaffi alla ragazza. Sono già nella loro trincea. La gelosia, già alle medie è considerata giusta ed è imperante la doppia morale sessuale tra maschi e femmine”. Un clima di restaurazione,  segnala sconfortato Alessio Miceli, che va nelle scuole a cercare di scardinare vecchi stereotipi  in qualità di presidente di Mp, Maschile Plurale, la rete di collettivi di uomini che dagli anni ‘80 riflette sulla propria identità di maschi, riprendendo il modello dell’autocoscienza femminista degli anni ‘70. Con una bella differenza:  le donne rivendicavano spazi e ruoli, gli uomini “femministi” hanno preso atto del cambiamento in corso,  e si mettono in discussione, rinunciando alla rendita di posizione: «Il maschile può essere una gabbia, fatta di prevaricazione e logiche patriarcali, che impedisce di esprimere emozioni, e limita l’ascolto. Noi impariamo a parlare di sentimenti, di sessualità  senza usare il linguaggio del bar», spiega Domenico Matarozzo del Cerchio degli uomini di Torino, storico gruppo della rete Mp, attivo da oltre 20 anni.

Per questa piccola avanguardia, alcune centinaia di “autocoscienti”  da Nord a Sud, il tema della violenza  di genere è diventato da poco una priorità, con l’emergenza femminicidi: «Dopo i cortei del 2006  abbiamo preparato un manifesto in cui si diceva: la violenza contro le donne è un nostro problema, occupiamocene» ricorda Alberto Leiss di Mp,  giornalista. Da allora si sono moltiplicate le attività, soprattutto nelle scuole, gli sportelli di aiuto e i gruppi mirati ai cosiddetti “maltrattanti”, gli uomini violenti con le donne. Ora sono una quarantina e per la prima volta si sono riuniti a Roma a maggio per confrontare efficacia e metodi. Il modello anche qui è l’autocoscienza, guidata da tutor. 
Non è un approccio terapeutico, perché il presupposto è che meno del 5% degli autori di violenza ha problemi mentali. La questione è sempre culturale. Lo sintetizza bene la criminologa Isabella Merzagora, che si occupa di stalker e “maltrattanti” nelle carceri:  «La “cultura del machismo” non è un buon affare per gli uomini: ci si aspetta che siano così forti e indipendenti da non dover chiedere aiuto poi però non sanno stare senza una donna, non possono mostrare momenti di debolezza, si pretende che un uomo non pianga. Il guaio è che allora, al posto delle lacrime, il modo di mostrare la sofferenza è quello etero aggressivo: non si piange, si picchia».    

La rete pullula di sigle che vedono l’emergere delle rivendicazioni femminili  come una minaccia, come è il caso dei variegati gruppi di padri separati o della rete internazionale  Avoiceformen, che  accusa il “nazifemminismo” di misandria e di inventarsi l’emergenza dei femminicidi. L’approccio della rete di MP capovolge i termini della questione: rivedere i ruoli del maschile fa bene non solo alle donne, ma anche agli uomini. Ci racconta di averlo verificato di persona Alberto, ricercatore universitario torinese  sulla sessantina. Nel 2014  ha letto una locandina del centro di aiuto del Cerchio degli uomini, che ha seguito 400 casi in 8 anni: «Ti accorgi di avere reazioni violente? Chiama 0112478185. Centro per l’ascolto del disagio maschile» Da un bel po’ con la sua compagna le cose non andavano bene,  urlava per piccole cose, si rendeva conto di instaurare un clima di terrore in casa. «La violenza la riversavo sugli oggetti, non su di lei, spaccavo piatti. Mi sono fermato prima di altri “colleghi”». Il rapporto stava andando a rotoli. «Ho telefonato, mi sono aggrappato a questo salvagente ed è iniziato il mio percorso”. Prima incontri individuali, poi di gruppo con altri “colleghi” come li chiama lui, chi con una denuncia, chi agli arresti domiciliari, qualcuno separato, tutti tra i 30 e i 60 anni: «Ci mettiamo in cerchio e parliamo con un supervisore che ci aiuta a capire i meccanismi che portano alla violenza: un accumulo di rabbia perché non si sa esprimere un disagio. Ci confrontiamo, parliamo di quello che sentiamo. Eravamo 12, ne abbiamo persi un po’ per strada. Dopo due anni ho smesso di avere accessi di rabbia, sto molto meglio, parlo, mi confronto.  Mi sento liberato. Per me l’incontro del lunedì sera è sacro». Ugo le mani invece le alzava eccome, prima di partecipare per due anni ai gruppi  del Programma Uomini Maltrattanti organizzati dall’associazione Lui (Livorno Uomini Insieme). Si è accorto di aver bisogno di un aiuto dopo aver visto che anche suo figlio cominciava ad avere comportamenti aggressivi, e alla fine ha convinto pure lui ad entrare nel programma.  

Il sociologo Marco Deriu, che ha intervistato 12 partecipanti all’unico gruppo del genere istituito da una Usl, a Modena, segnala il livello di soddisfazione molto alto di tutti, comprese le compagne, e il crollo del tasso di violenza fisica.  «Il limite è che i risultati migliori li hanno coloro che partecipano volontariamente e quindi hanno fatto già da soli una parte del percorso, piuttosto di coloro che sono mandati da avvocati o assistenti sociali». 

 Un fronte delicato è quello dei finanziamenti pubblici di queste iniziative, che secondo alcuni gruppi femministi sottraggono risorse già scarse ai centri antiviolenza e offuscano la centralità delle vittime. «E’ un conflitto tutto italiano-dice Deriu- ma non c’è dubbio che sia necessario intervenire anche su chi la violenza la compie e non solo la subisce». «Il punto è dar corso all’art.16 della Convenzione di Istanbul- dice Gabriele Lessi del gruppo Lui di Livorno - dove si parla di programmi rivolti agli autori della violenza domestica per mutare comportamenti e evitare altre violenze.  L’obiettivo è abbassare le recidive del 30-40%». Non solo punire, ma prevenire. E una delle vie passa anche per l’“emancipazione” del maschio. 


Sotto il video Five man realizzato da Maschile Plurale e proiettato nelle scuole





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Pubblicato su pagina99 il 21 luglio 2017


Per capire come si fa un giornale rileggiamoci Antonio Gramsci

«Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista?». Ogni riferimento a fatti reali non è casuale se a farsi questa domanda è Antonio Gramsci e noi la leggiamo nei giorni in cui il quotidiano da lui fondato e diretto nel 1924, l’Unità, è scomparso dai radar a tempo indeterminato. 80 anni dopo la sua morte, in piena crisi della stampa e di un mestiere senza più smalto, vale la pena andarsi a rileggere come si dovrebbero fare i giornali secondo Gramsci, che si autodefiniva prima di ogni altra cosa pubblicista,  scritto nero su bianco nel verbale d’arresto. Ci aiuta la raccolta appena pubblicata con micidiale tempismo “Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista”(a cura di Gian Luca Corradi, editore Tessere) che accanto ad una selezione di articoli di cultura e costume scritti per varie testate, raccoglie lettere e riflessioni su come mettere in campo un’impresa editoriale, osservazioni minute sulla titolazione (“atteggiamento demagogico-commerciale quando si vuole sfruttare le tendenze più basse” o "educativo-didattico”), gli elementi grafici per attrarre i lettori, le rubriche (indispensabile “una rubrica permanente sulle correnti scientifiche”), i supplementi. Un manuale anche su come si forma il giornalista, preferibilmente attraverso vere e proprie scuole. «Il principio che il giornalismo debba essere insegnato e che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé, casualmente attraverso la praticaccia è vitale» dice decisamente in anticipo sui tempi. Lettore onnivoro -nella sua mazzetta in carcere anche il Corriere dei Piccoli - Gramsci ha un giudizio critico sui giornali italiani, provinciali e pieni di difetti - il più grave, «il parlare di antecedenti che non sono stati dati, come se il lettore dovesse conoscerli» suona particolarmente familiare - e una consapevolezza radicale dei rischi del mestiere: «Io non sono mai stato un giornalista professionista che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo». 


Antonio Gramsci, “Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ‘l’Unità’”, a cura di Gian Luca Corradi, introduzione di Luciano Canfora e postfazione di Giorgio Frasca Polara, edito da Tessere, Firenze

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Pubblicato su pagina99 il 30 giugno 2018

lunedì 10 luglio 2017

Ageismo, il nuovo tabù è la vecchiaia




I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle


“Complimenti, sembri più giovane”. Mi sono sentita rivolgere questa frase pochi giorni fa ma a malincuore ho represso l’istintivo sentimento di gratitudine nei confronti dell’interlocutore. Fresca della lettura de Il bello dell’età. Manifesto contro l’ageismo (Corbaccio, 20 euro) della giornalista americana Ashton Applewhite, ho subito avvertito il pregiudizio insito nel complimento, anche se nel profondo il lato oscuro di me si rallegrava. Ma il ragionamento di Applewhite è semplice e ineccepibile: perché dovrebbe essere meglio dimostrare meno dell’età che si ha? Cos’ha che non va l’età reale?
La verità è che la vecchiaia è l’ultimo grande tabù, catalizzatore di stereotipi negativi e di correlate discriminazioni. Ageismo è un termine introdotto nel 1969 dal geriatra Butler per definire, come tutti gli ismi, il disprezzo e la svalutazione connessa ad una condizione naturale come l’invecchiamento. Ora, dopo l’era del woman pride, del gay pride, e black pride, è giunta l’ora dell’age pride, annuncia Applewhite, ultima frontiera della battaglia contro tutte le oppressioni.

Non è un caso che il tema stia diventando di moda proprio nel momento in cui i baby boomers si affacciano allarmati alla terza età, dopo aver vissuto una vita incentrata sul mito della giovinezza. Si moltiplicano libri e blog a tema, come quello di Lidia Ravera, Il terzo tempo, che in un dialogo con i lettori dispensa pillole di vecchiaia felice, anche con suggerimenti molto pratici su dieta e sport, sulla scorta del suo ultimo omonimo romanzo (Bompiani, 19 euro) che tratta di vecchie e vecchi non convenzionali. Tema condiviso dal saggio di Marco Aime e Luca Borzani Invecchiano solo gli altri (Einaudi, 13 euro) in questo caso centrato sull’indisponibilità dei baby boomers ingrigiti a lasciare spazio ai giovani assieme alla sostanziale impreparazione della società ad affrontare un futuro in cui gli over 65 saranno legioni.
La plastica conferma e insieme smentita dell’ageismo imperante l’abbiamo appena vissuta con la coppia Brigitte-Macron, lui “troppo giovane”, lei “troppo vecchia“, un ageismo in questo caso condito di sessismo ovviamente, ma dove il dato anagrafico diventa discrimine bidirezionale,verso l’alto e verso il basso. “Old is the new black” si legge sulla maglietta di una modella agée nel blog Advanced style dedicato allo street style delle pantere grigie.
I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle
Il merito di Applewhite in questa discussione è di approfondire la questione da tutti i lati, salute, lavoro, sesso, anche la morte, senza scorciatoie e visioni edulcorate. Perché l’orgoglio anziano deve comunque fare i conti con quella rotula di cui hai ignorato l’esistenza per 60 anni e che improvvisamente si manifesta sotto forma di dolore, o quella ruga che per quanto la spiani ti ricorda lo scorrere del tempo. E poi la solitudine, la perdita delle persone care, la memoria che latita. E l’esclusione traumatica dal mondo del lavoro. Da qui in realtà è partita con la sua ricerca Applewhite, per scoprire strada facendo per esempio che i momenti più felici della vita sono all’inizio e dopo i sessanta, almeno secondo un’indagine dell’Università di Warwick e del Dartmouth College, condotta su 2 milioni di persone di ottanta Paesi diversi. Oppure che gli over 65, secondo uno studio del General social survey americano iniziato nel 1972 sono mediamente i più soddisfatti del loro lavoro. O che il loro ruolo nel volontariato o semplicemente come “nonni” che contribuiscono al welfare famigliare vale punti di pil.
«Perché non lo sapevo? Perché questi dati positivi sulla vecchiaia sono tenuti segreti e se ne parla solo in termini di declino, costi sociali e guerra intergenerazionale?» si è chiesta Applewhite, 63 enne decisamente sbarazzina. Gli esempi che porta sono moltissimi, arzilli vecchietti capaci di grandi performance e di preziosi contributi in termini di esperienza e lungimiranza nel contesto sociale e nel mondo del lavoro. Se glielo si permette. Rivelatore quello che ha dichiarato Natalia Tanner, prima donna afromericana a frequentare medicina a Chicago e la prima pediatra nera di Detroit: alla domanda cosa le ha più pesato tra razzismo, sessismo e ageismo lei ha risposto l’età.«Molti pensano che quando hai la mia età, 85 anni, sei debilitato, mentalmente fisicamente».

Ma l’ageismo può cominciare molto presto: nella Silicon Valley, che da Eldorado dell’innovazione si sta rivelando anche laboratorio avanzato di nuove forme di controllo e di oppressione, i manager over 50 sono spinti ad un massiccio uso di botox e blefaroplastica, felpa e infradito per mimetizzarsi con i nativi digitali, nonostante e a prescindere dalle loro competenze. Una negazione dell’invecchiamento che naturalmente colpisce più duro le donne, spinte dal martellamento continuo delle multinazionali della cosmetica. “Ma per quanto ci gonfiamo di botox, non saremo mai più giovani” è la conclusione lapalissiana di Applewhite, invitando a trovare ispirazione nel lavoro dell’artista israeliana Noa Zilberman, che ha creato una linea di gioielli (Wrinkle) che enfatizzano le rughe invece di nasconderle.

Punto altamente critico è quello del conflitto intergenerazionale: i vecchi tolgono risorse e posti di lavoro ai giovani. «Sarebbe come dire che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro nel XX secolo ha tolto posti di lavoro agli uomini. Non è stato così, semmai il problema è il mercato del lavoro: se è forte, tutte le età ne beneficiano». Se è debole, è conveniente per chi detiene le redini del sistema mettere gli uni contro gli altri, donne contro uomini, giovani contro vecchi, o italiani contro stranieri per tenere basse rivendicazioni e salari. Secondo dati citati dalla Applewhite, la perdita di competenze e talenti maturi alla fine si traduce in un costo anche economico per le aziende. E molte ricerche mostrano che gli anziani al lavoro sono meno veloci ma sbagliano di meno. Guardato in prospettiva, visto i cattivi pronostici del welfare nel mondo occidentale e l’allontanarsi dell’ipotesi di avere una pensione decente, diventa urgente un ripensamento globale che valuti la convenienza di tenere più a lungo possibile al lavoro gli anziani.
Un termine su cui Applewhite si esercita per parecchie pagine: in realtà ciascuno di noi è anziano rispetto a qualcun altro, anche un bambino di otto anni rispetto a uno di tre. Meglio usare l’espressione “più vecchio”, quindi espressione relativa, «perché l’età è uno spettro in un continuum, la vita e di fondo siamo tutti “vecchi in formazione”».


I gioielli di Noa Zilberman della serie Wrinkle

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Pubblicato il 3 giugno 2017 su Cultweek

domenica 9 luglio 2017

Atai, 22 anni, dall'Afghanistan all'Italia sotto un camion sognando scuole e cultura

La scuola di inglese e informatica che Atai Walimohammad aveva aperto a 16 anni nel suo villaggio. 

La sua nuova vita Atai l’ha conquistata dopo aver bucato il tubo della benzina sotto il camion a cui era aggrappato da 22 ore. Non ce la faceva più: «Volevo che si fermasse». Appena il mezzo ha rallentato lui ha mollato e si è messo a correre, non sapeva dove fosse. Era in Puglia, era il 2012 e lui aveva solo 16 anni, una vita già zeppa di sogni e tragedie, iniziate nel suo villaggio in Afghanistan, pattugliato di giorno dai governativi e di notte dai talebani. Oggi Atai Walimohammad ha 21 anni, sta finendo a Pavia la laurea triennale in scienza della mediazione linguistica, sa sei lingue (compreso l’arabo e il bengalese) e il suo lavoro è occuparsi di richiedenti asilo nei sei centri gestiti dall’associazione Lia che opera in Puglia e in Lombardia. Lui coordina la start up, l’organizzazione logistica, e il primo approccio nella gestione dei rapporti con le comunità locali che spesso mal volentieri ospitano questi centri. Insegna l’italiano e conduce laboratori artistici per i rifugiati, la scultura è un’altra sua passione. «Ho imparato da solo, all’inizio facevo cose bruttine, ora vedo che piacciono, mi definirei un artistino, non proprio un artista».  

Atai con una delle sue sculture 
Atai vuole che la sua storia sia conosciuta, va nelle scuole a raccontarla «perchè la gente capisca come mai noi rifugiati veniamo qui».  Una vicenda, la sua  che racconta di come in 17 anni di guerra in Afghanistan le cose siano solo peggiorate, di un padre medico ucciso dai talebani perché invitava i bambini a non andare nelle madrasse ma a scuola, di un fratello medico torturato fino a impazzire perché non voleva mettersi al servizio esclusivo dei talebani (ora è a Crotone, in attesa di cure), di un fratellino fuggito in Germania. E poi c’è lui estroverso e affamato di cultura, che ha imparato tutto da solo leggendo i libri del padre, quando ormai le scuole non c’erano più: «La mia più grande gioia era aver aperto una scuola di inglese e informatica nel mio villaggio, con l’aiuto dell’esercito afgano e americano, per strappare i bambini alle madrasse. Venivano in tanti».  Ma poi sono arrivati i talebani, hanno distrutto tutto e lui è fuggito, prima in Iran, poi in Turchia, in Grecia, nove mesi di odissea fino a quel viaggio sotto il camion.  Prima è stato accolto in una comunità per minori a Lecce, poi in un centro di Foggia. La svolta quando la sua conoscenza autodidatta delle lingue lo ha reso utile come interprete e mediatore, fino a farne una professione. «Sono stato fortunato, ma la legge italiana non aiuta».


Atai nel centro di Capriate 
 Atai ha una visione chiara della situazione dell’accoglienza in mano ai privati: «Lo  Stato dovrebbe fare molti più controlli nei centri gestiti dalle cooperative e dai privati dove i richiedenti stanno fino a due anni. Invece i rifugiati vengono trattati dallo Stato come oggetti, spostati di qua e di là. Ci sono posti dove gli ospiti sono abbandonati, non fanno nulla e così l’integrazione è impossibile. E questo alimenta sospetti su tutta la gestione, anche su centri come i nostri, dove  insegniamo l’italiano dal primo giorno e dove i soldi non finiscono tutti in tasca ai gestori, ma vengono investiti per i ragazzi». Atai nutre molto aspettative sul decreto Minniti, soprattutto per l’istituzione dei centri per il rimpatrio: «Non ha senso che quando viene respinta la richiesta di asilo, in una percentuale molto alta,  la gente poi finisca un buco nero, ad alimentare disagio e criminalità. Spero che questi centri funzionino davvero». Ma non mancano le critiche: «Fare accordi con la Libia è assurdo per noi che tutti i giorni ascoltiamo i racconti delle torture inflitte ai migranti». La mission di Atai ora è anche riaccendere i riflettori sulla situazione del suo paese: «Oggi è 40 volte peggio di 17 anni fa. In Afghanistan ci sono 45 paesi (anche l’italia ndr), possibile che non riescano a sconfiggere i talebani? In più ora c’è anche l’Isis. Quando Trump ha mandato la madre di tutte le bombe testimoni dicono che quelli dell’Isis erano stati avvertiti. A chi giova?».


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Pubblicato il 19 giugno 2016 su Metro