venerdì 18 gennaio 2019

La missione di Cristina Cattaneo: ridare un nome ai naufraghi del Mediterraneo


«Se tua figlia fosse morta in un incidente aereo, non vorresti che fosse identificata?» È tutta in questa risposta ad un amico scettico l’impresa immane dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, 54 anni, docente e direttrice del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense da lei fondato nel 1995 a Milano: dare un nome alle vittime dei naufragi nel Mediterraneo. A partire dalla tragedia del 3 ottobre 2013, in cui morirono 366 migranti davanti a Lampedusa, fino al recupero e il trasporto nella base di Melilli, nel 2016, del barcone con il suo carico di mille morti, naufragato il 18 aprile 2015 nel canale di Sicilia. Cattaneo, nota per casi importanti come quello di Yara, ha voluto ripercorrere in un libro “Naufraghi senza volto” (Cortina Editore, pp. 198, euro 14) quell’impresa resa possibile dalla collaborazione di Marina, vigili del fuoco, 12 università e dall’impegno del commissario straordinario di Governo per le persone scomparse, il prefetto Vittorio Piscitelli (figura unica in Europa istituita nel 2012). Un resoconto drammatico che tra raccolte di resti, catalogazione e incrocio con i dati forniti dai parenti, racconta la migrazione dal punto di vista dei sommersi, direbbe Primo Levi, in questo caso letteralmente. «Ho sentito l’urgenza di scrivere perché restasse memoria di cosa l’Italia è stata capace di fare mettendo la scienza e le nostre competenze al servizio dei diritti umani. Dietro ai morti senza nome ci sono vivi che hanno diritto di sapere che fine hanno fatto i loro cari e l’Italia ha inventato un protocollo, che ora è un modello per tutto il mondo».
Qualcuno di questi tempi potrebbe obiettare che è uno spreco di soldi.
«Al contribuente italiano il nostro lavoro scientifico non è costato un euro, è stato finanziato da fondazioni e privati sensibili alla causa».