mercoledì 2 agosto 2017

Autocoscienza anni '70 e tutor: così il maschio si emancipa dalla violenza


Anche l’uomo più disgraziato può usufruire di qualche dividendo del patriarcato, sostiene la sociologa australiana 73enne Raewyn Connell,  autorità  mondiale sul tema del “maschile”,  nata Robert e divenuta  donna a tarda età. E cosa può capitare  quando  l’uomo, disgraziato o meno, vede rosicchiato il suo residuo bottino di privilegi da una compagna disobbediente, ribelle, “emancipata”?  Magari le tira due ceffoni e cerca di rimetterla in riga. Un evergreen sempre attuale: «Nelle scuole superiori  5 ragazzi su 10 trovano normale dare degli schiaffi alla ragazza. Sono già nella loro trincea. La gelosia, già alle medie è considerata giusta ed è imperante la doppia morale sessuale tra maschi e femmine”. Un clima di restaurazione,  segnala sconfortato Alessio Miceli, che va nelle scuole a cercare di scardinare vecchi stereotipi  in qualità di presidente di Mp, Maschile Plurale, la rete di collettivi di uomini che dagli anni ‘80 riflette sulla propria identità di maschi, riprendendo il modello dell’autocoscienza femminista degli anni ‘70. Con una bella differenza:  le donne rivendicavano spazi e ruoli, gli uomini “femministi” hanno preso atto del cambiamento in corso,  e si mettono in discussione, rinunciando alla rendita di posizione: «Il maschile può essere una gabbia, fatta di prevaricazione e logiche patriarcali, che impedisce di esprimere emozioni, e limita l’ascolto. Noi impariamo a parlare di sentimenti, di sessualità  senza usare il linguaggio del bar», spiega Domenico Matarozzo del Cerchio degli uomini di Torino, storico gruppo della rete Mp, attivo da oltre 20 anni.

Per questa piccola avanguardia, alcune centinaia di “autocoscienti”  da Nord a Sud, il tema della violenza  di genere è diventato da poco una priorità, con l’emergenza femminicidi: «Dopo i cortei del 2006  abbiamo preparato un manifesto in cui si diceva: la violenza contro le donne è un nostro problema, occupiamocene» ricorda Alberto Leiss di Mp,  giornalista. Da allora si sono moltiplicate le attività, soprattutto nelle scuole, gli sportelli di aiuto e i gruppi mirati ai cosiddetti “maltrattanti”, gli uomini violenti con le donne. Ora sono una quarantina e per la prima volta si sono riuniti a Roma a maggio per confrontare efficacia e metodi. Il modello anche qui è l’autocoscienza, guidata da tutor. 
Non è un approccio terapeutico, perché il presupposto è che meno del 5% degli autori di violenza ha problemi mentali. La questione è sempre culturale. Lo sintetizza bene la criminologa Isabella Merzagora, che si occupa di stalker e “maltrattanti” nelle carceri:  «La “cultura del machismo” non è un buon affare per gli uomini: ci si aspetta che siano così forti e indipendenti da non dover chiedere aiuto poi però non sanno stare senza una donna, non possono mostrare momenti di debolezza, si pretende che un uomo non pianga. Il guaio è che allora, al posto delle lacrime, il modo di mostrare la sofferenza è quello etero aggressivo: non si piange, si picchia».    

La rete pullula di sigle che vedono l’emergere delle rivendicazioni femminili  come una minaccia, come è il caso dei variegati gruppi di padri separati o della rete internazionale  Avoiceformen, che  accusa il “nazifemminismo” di misandria e di inventarsi l’emergenza dei femminicidi. L’approccio della rete di MP capovolge i termini della questione: rivedere i ruoli del maschile fa bene non solo alle donne, ma anche agli uomini. Ci racconta di averlo verificato di persona Alberto, ricercatore universitario torinese  sulla sessantina. Nel 2014  ha letto una locandina del centro di aiuto del Cerchio degli uomini, che ha seguito 400 casi in 8 anni: «Ti accorgi di avere reazioni violente? Chiama 0112478185. Centro per l’ascolto del disagio maschile» Da un bel po’ con la sua compagna le cose non andavano bene,  urlava per piccole cose, si rendeva conto di instaurare un clima di terrore in casa. «La violenza la riversavo sugli oggetti, non su di lei, spaccavo piatti. Mi sono fermato prima di altri “colleghi”». Il rapporto stava andando a rotoli. «Ho telefonato, mi sono aggrappato a questo salvagente ed è iniziato il mio percorso”. Prima incontri individuali, poi di gruppo con altri “colleghi” come li chiama lui, chi con una denuncia, chi agli arresti domiciliari, qualcuno separato, tutti tra i 30 e i 60 anni: «Ci mettiamo in cerchio e parliamo con un supervisore che ci aiuta a capire i meccanismi che portano alla violenza: un accumulo di rabbia perché non si sa esprimere un disagio. Ci confrontiamo, parliamo di quello che sentiamo. Eravamo 12, ne abbiamo persi un po’ per strada. Dopo due anni ho smesso di avere accessi di rabbia, sto molto meglio, parlo, mi confronto.  Mi sento liberato. Per me l’incontro del lunedì sera è sacro». Ugo le mani invece le alzava eccome, prima di partecipare per due anni ai gruppi  del Programma Uomini Maltrattanti organizzati dall’associazione Lui (Livorno Uomini Insieme). Si è accorto di aver bisogno di un aiuto dopo aver visto che anche suo figlio cominciava ad avere comportamenti aggressivi, e alla fine ha convinto pure lui ad entrare nel programma.  

Il sociologo Marco Deriu, che ha intervistato 12 partecipanti all’unico gruppo del genere istituito da una Usl, a Modena, segnala il livello di soddisfazione molto alto di tutti, comprese le compagne, e il crollo del tasso di violenza fisica.  «Il limite è che i risultati migliori li hanno coloro che partecipano volontariamente e quindi hanno fatto già da soli una parte del percorso, piuttosto di coloro che sono mandati da avvocati o assistenti sociali». 

 Un fronte delicato è quello dei finanziamenti pubblici di queste iniziative, che secondo alcuni gruppi femministi sottraggono risorse già scarse ai centri antiviolenza e offuscano la centralità delle vittime. «E’ un conflitto tutto italiano-dice Deriu- ma non c’è dubbio che sia necessario intervenire anche su chi la violenza la compie e non solo la subisce». «Il punto è dar corso all’art.16 della Convenzione di Istanbul- dice Gabriele Lessi del gruppo Lui di Livorno - dove si parla di programmi rivolti agli autori della violenza domestica per mutare comportamenti e evitare altre violenze.  L’obiettivo è abbassare le recidive del 30-40%». Non solo punire, ma prevenire. E una delle vie passa anche per l’“emancipazione” del maschio. 


Sotto il video Five man realizzato da Maschile Plurale e proiettato nelle scuole





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Pubblicato su pagina99 il 21 luglio 2017


Per capire come si fa un giornale rileggiamoci Antonio Gramsci

«Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista?». Ogni riferimento a fatti reali non è casuale se a farsi questa domanda è Antonio Gramsci e noi la leggiamo nei giorni in cui il quotidiano da lui fondato e diretto nel 1924, l’Unità, è scomparso dai radar a tempo indeterminato. 80 anni dopo la sua morte, in piena crisi della stampa e di un mestiere senza più smalto, vale la pena andarsi a rileggere come si dovrebbero fare i giornali secondo Gramsci, che si autodefiniva prima di ogni altra cosa pubblicista,  scritto nero su bianco nel verbale d’arresto. Ci aiuta la raccolta appena pubblicata con micidiale tempismo “Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista”(a cura di Gian Luca Corradi, editore Tessere) che accanto ad una selezione di articoli di cultura e costume scritti per varie testate, raccoglie lettere e riflessioni su come mettere in campo un’impresa editoriale, osservazioni minute sulla titolazione (“atteggiamento demagogico-commerciale quando si vuole sfruttare le tendenze più basse” o "educativo-didattico”), gli elementi grafici per attrarre i lettori, le rubriche (indispensabile “una rubrica permanente sulle correnti scientifiche”), i supplementi. Un manuale anche su come si forma il giornalista, preferibilmente attraverso vere e proprie scuole. «Il principio che il giornalismo debba essere insegnato e che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé, casualmente attraverso la praticaccia è vitale» dice decisamente in anticipo sui tempi. Lettore onnivoro -nella sua mazzetta in carcere anche il Corriere dei Piccoli - Gramsci ha un giudizio critico sui giornali italiani, provinciali e pieni di difetti - il più grave, «il parlare di antecedenti che non sono stati dati, come se il lettore dovesse conoscerli» suona particolarmente familiare - e una consapevolezza radicale dei rischi del mestiere: «Io non sono mai stato un giornalista professionista che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo». 


Antonio Gramsci, “Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ‘l’Unità’”, a cura di Gian Luca Corradi, introduzione di Luciano Canfora e postfazione di Giorgio Frasca Polara, edito da Tessere, Firenze

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Pubblicato su pagina99 il 30 giugno 2018