mercoledì 26 ottobre 2016

Perché in Messico il femminicidio è un reato

L'avvocata dei diritti umani Ana Yeli Pèrez Garrido./foto Paola Rizzi

CITTA' DEL MESSICO  Nel 2010 in una cittadina dello Stato del Messico (Edomex, uno dei 31 stati che compongono l’omonimo Stato federale) la 28enne Mariana Lima Buendia fu trovata morta nella casa che divideva con il suo compagno, un poliziotto che la riempiva di botte e a cui tra le altre cose piaceva terrorizzarla infilandole la canna della pistola in bocca. Aveva appena detto a sua madre che intendeva  andarsene e denunciare il suo aguzzino. Accanto al suo corpo furono trovate le valigie. Ma la sua morte venne subito archiviata come suicidio. La madre Irinea, donna semplice e coraggiosissima, non si è arresa, si è messa a studiare diritto e aiutata dalle ong femministe e appellandosi alle nuove leggi  messicane sulla violenza di genere, nel 2015 è riuscita a far riaprire il caso con l’imputazione di femminicidio. Il presunto assassino è attualmente in galera. A seguire la vicenda Ana Yeli Pérez Garrido, 32 avvocata dell’Observatorio Nacional Ciudadano de Feminicidio, una delle decine di aggueritissime associazioni di avvocate, giuriste, sociologhe e politiche, che da decenni combattono senza tregua per salvare la vita alle donne messicane.

Irinea Lima Buendia, madre di Mariana, con Ana Yeli Pérez Garrido.

I numeri della strage
In Italia nel 2015 sono state uccise 468 persone, uno dei tassi di omicidi più bassi al mondo; poco meno del 30 per cento,  128, erano donne. È il nostro primato: in un paese in cui i morti ammazzati calano drasticamente il numero di donne uccise resta costante e cresce in percentuale. In Messico la percentuale di femminicidi è “solo” del 10%. Ma in termini assoluti si tratta di una strage: nel 2015 sono state uccise 2352 messicane, una media di sette donne al giorno. In un paese in cui nello stesso anno ci sono stati 20 mila morti, numeri da guerra civile per l’escalation dello scontro tra cartelli dei narcos e forze armate, su cui ieri è intervenuto anche il Papa, può sembrare poca cosa. «Ma la battaglia principale è quella contro la sottovalutazione e l’impunità dei delitti contro le donne» ci spiega Ana. Una lotta di avanguardia con effetti molto concreti: in Messico “femminicidio” non è solo un brutto neologismo da usare nel dibattito politico o sui giornali.  Dal 2011 è anche una precisa fattispecie di reato, con aggravanti pesantissime, inserita nel codice penale.

Ciudad Juarez
«Tutto è iniziato con gli eccidi a Ciudad Juarez, centinaia di giovani donne rapite, violentate, torturate e uccise a partire dagli anni ‘90 nella totale impunità degli assassini. Prima si sono mobilitate le madri chiedendo giustizia, poi avvocate, giuriste e politiche». Una battaglia che ha portato nel 2009 alla condanna del Messico da parte della Corte interamericana dei diritti umani per la negligenza nella tutela della vita delle donne e ad una campagna per introdurre nella legislazione la parola femminicidio.
Nel contesto messicano la violenza domestica, il 30% dei casi, si unisce alla tratta e all’utilizzo delle donne come bottino nella guerra tra i narcos.  «Per questo definire il reato è stato molto complesso –spiega Ana - ma l’obiettivo era determinare un’attenzione e una presa di coscienza della società e delle istituzioni su una realtà sottovalutata e negata». Secondo l’articolo 325 del codice penale federale introdotto dal 2011 (operativo in tutti gli stati tranne, paradossalmente, in quello di Ciudad Juarez, Chihuahua) il reato di femminicidio si configura come “l’uccisione di una donna per ragioni di genere”, ossia per il fatto di essere donna. Ragioni che sussistono quando si verifica almeno una di queste circostanze: il corpo presenta lesioni infamanti e degradanti, come mutilazioni e bruciature, ci sono segni di violenza sessuale, la vittima è stata segregata, c’è una relazione di intimità con il presunto assassino, il corpo è abbandonato sulla strada, esistono precedenti di violenza o molestie in famiglia, nel luogo di lavoro o studio tra la vittima e il presunto assassino.

Allerta di genere
 Oltre alla tipizzazione del reato, nel 2007 la “legge generale di accesso delle donne  ad una vita libera da violenza” ha previsto anche il dispositivo dell’“allerta di genere” nel caso di violazioni dei diritti umani delle donne ripetute e gravi, allerta sollecitata da ong e associazioni femminili. «Una delle prima richieste di proclamazione dell’allerta di genere l’abbiamo rivolta all’Edomex allora governato dall’attuale presidente del Messico Peña Nieto – racconta Ana – avevamo raccolto dati che certificavano come tra il 2005 e il 2010 in quello stato si fossero verificati 922 femminicidi. Nel 2010 abbiamo richiesto l’allerta, contro cui il governatore ha più volte fatto ricorso, fino a che una sentenza del 2015 per la prima volta ci ha dato ragione, stigmatizzando il fatto che nel tempo trascorso lo Stato si era reso responsabile per omissione di un aumento di femminicidi nell’area». In questo momento l’allerta di genere è stato proclamato in quattro stati e sono pendenti altre 20 richieste. Sui giornali locali quotidianamente si trovano notizie e appelli sul tema, come nello stato di Michoacan, uno di quelli a maggior tasso di criminalità dove nei primi sei mesi del 2016 ci sono stati 437 femminicidi e da giugno è in vigore l’allerta di genere. In alcuni municipi sono state attivate le cosiddette “pattuglie di polizia di genere”.  Gli effetti concreti? «Decretare l’allerta significa innanzitutto prendere atto che il problema della violazione dei diritti delle donne, a partire da quello alla vita, in quella determinata area esiste –dice Ana-  Ma incontriamo moltissime resistenze presso le autorità.  Una volta che l’allerta è attivato il governo ha il dovere di mettere in atto azioni preventive, di indagine e di sicurezza che vengono poi monitorate dalle associazioni».
Ma la battaglia più dura è quella contro l’impunità, un problema che in Messico non riguarda solo le donne: «Il tasso di impunità è pari al 98%, nel caso dei femminicidi è del 99%». Solo il 30 % dei femminicidi viene riconosciuto come tale nei tribunali, con le aggravanti del caso (fino a 70 anni di carcere) e da quando il reato è stato introdotto nel codice penale dal 2012 al 2015 ci sono state solo 169 sentenze di femminicidio. «Quello contro cui ci scontriamo ogni giorno prima ancora della corruzione è una impunità funzionale dei servitori dello stato, se lavorano male nessuno li punisce– dice Ana – nella polizia, nei tribunali non c’è preparazione e permane una sostanziale tendenza a sottovalutare i delitti contro le donne e a criminalizzare le vittime. Ho assistito il padre di un ragazza uccisa che si è scontrato per anni contro le autorità che non indagavano sulla morte della figlia, l’unica che lo ha aiutato è stata una funzionaria che gli ha scritto un ricorso, però lo ha fatto di nascosto perché non voleva inimicarsi il sistema».

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Pubblicato su Metro  il 25 settembre 2019 


Il reato di femminicidio in America Latina
Messico, Costa Rica, Guatemala, Cile, Salvador, Perú e Nicaragua sono i paesi in cui la legge penale ha introdotto il femminicidio come reato. 
La parola femminicidio è un neologismo utilizzato per la prima volta dalla femminista americana Diana Russell  nel 1992, nel libro Femicide: The Politics of woman killing, attraverso l’utilizzo di questa nuova categoria criminologica, per parlare di un crimine d’odio nei confronti delle donne.

domenica 23 ottobre 2016

Le nozze “normali" dei due Paoli

Eravamo tutti più giovani quando, il 27 giugno del 1992, il consigliere comunale e attivista del movimento gay Paolo Hutter salì su un palco in piazza della Scala indossando la fascia tricolore per celebrare dieci matrimoni di altrettante coppie omosessuali, nove di uomini e una di donne. Era solo una dimostrazione, una protesta e un appello perché l’Italia mettesse nella sua agenda politica, come avveniva in molti altri paesi, l’estensione dei diritti alle coppie gay. Magicamente  in quella piazza la finzione si trasformò in una festa autentica e commossa, con le coppie degli sposi e delle spose emozionate per davvero, che spiegavano alle frotte di giornalisti il loro progetto di vita insieme, la storia del loro amore, la necessità di vedersi garantiti diritti e doveri reciproci.  Un incantesimo contagioso: un tassista offrì la corsa ad una coppia di finti neosposi. Dopo quell’evento, rimasto nella storia del movimento LGBT italiano, non è più successo nulla per molto tempo. Sotto i ponti della chiacchiera politica sono naufragati i Pacs, i Dico, I Didore (sì anche questi abbiamo avuto, ce li eravamo dimenticati). Proposte dalla vita accidentata e breve. Nel frattempo alcuni dei protagonisti di quella giornata non ci sono più. Ivan Dragoni e Gianni delle Foglie, una delle dieci coppie, non hanno fatto in tempo a vedere la legge sulle unioni civili, indiscutibile successo caparbiamente perseguito da  Renzi.
Da quando è stata varata la Cirinnà le unioni civili gay si sono moltiplicate. Ogni volta è una festa, un’affermazione di diritti, ma ormai anche una cosa “nomale”, una normalità sancita dalla legge recuperando il gap con la società civile evidentemente pronta da tempo a questo passo.  Ma sabato a Milano, nella sala dei matrimoni di Palazzo Reale è come se si fosse un po’ chiuso il cerchio: Paolo Hutter si è “sposato” con il suo storico compagno Paolo Oddi, avvocato specializzato nei diritti dei migranti. Hanno scelto di farne una cerimonia pubblica, anche perché,  come ha detto Hutter, «ventiquattro anni dopo quella giornata storica non potevo farlo alla chetichella». E lo hanno fatto dirottando l’attenzione dai propri diritti conquistati ad altri ancora non garantiti:  celebrante e testimoni tre donne africane, per dedicare quella unione civile alla convivenza multietnica. Per dirla con Hutter: «Abbasso l’omofobia, abbasso tutte le fobie e le paure, viva la differenza, la diversità e la convivenza» . Evviva e tanti auguri.

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Pubblicato su Metro il 2 ottobre 2016 

Il Valhalla della fertilità




Certo che c’è una certa tignosa pervicacia nella campagna di comunicazione sul fertility day indetto per oggi dalla Ministra della salute Beatrice Lorenzin. Eravamo rimasti alle polemiche estive sul messaggio veicolato dai poster, a proposito del ticchettio implacabile dell’orologio biologico femminile, per cui meglio fare i figli subito, priorità sociale e rinviare la carriera a dopo, supportato nel Piano sulla fertilità da affermazioni come: “Cosa fare di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato  un allontanamento dal desiderio stesso di maternità?”. Già. Ma questo appartiene al passato. All’oggi, anzi a ieri  appartiene la tempesta  scatenatasi sulla copertina dell’opuscolo, poi cancellato in serata con siluramento del responsabile, su “Stili di vita corretti per la prevenzione dell’infertilità”, peraltro pieno di utilissime informazioni: un’immagine divisa in due, sopra il Bene ovvero due coppie di chiara razza ariana, biondi e con gli occhi azzurri, in una luce dorata che lascia intendere ore di stili di vita corretti tra golf e beach volley. Sotto il Male, in  una cupa luce da scantinato, ossia fricchettoni che si fanno le canne e un nero nullafacente, cioé che non si sta facendo una canna ma fa solo “colore”.  Fin troppo facile stigmatizzare la rozzezza del messaggio, tanto che molti hanno pensato ad una bufala.  Invece no. Altro che “il razzismo è negli occhi di chi guarda” come ha detto penosamente la Lorenzin Non so in quale mondo vivano la Ministra e i suoi esperti di comunicazione, forse in qualche Valhalla immaginato da un nazista dell’Illinois ubriaco, ma non è il nostro.


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Pubblicato su Metro il 21 settembre 2016