L'avvocata dei diritti umani Ana Yeli Pèrez Garrido./foto Paola Rizzi |
CITTA' DEL MESSICO Nel 2010 in una cittadina dello Stato
del Messico (Edomex, uno dei 31 stati che compongono l’omonimo Stato federale)
la 28enne Mariana Lima Buendia fu trovata morta nella casa che divideva con il
suo compagno, un poliziotto che la riempiva di botte e a cui tra le altre cose
piaceva terrorizzarla infilandole la canna della pistola in bocca. Aveva appena
detto a sua madre che intendeva andarsene e denunciare il suo aguzzino.
Accanto al suo corpo furono trovate le valigie. Ma la sua morte venne subito
archiviata come suicidio. La madre Irinea, donna semplice e coraggiosissima,
non si è arresa, si è messa a studiare diritto e aiutata dalle ong femministe e
appellandosi alle nuove leggi messicane sulla violenza di genere, nel
2015 è riuscita a far riaprire il caso con l’imputazione di femminicidio. Il
presunto assassino è attualmente in galera. A seguire la vicenda Ana Yeli Pérez
Garrido, 32 avvocata dell’Observatorio
Nacional Ciudadano de Feminicidio, una delle decine di
aggueritissime associazioni di avvocate, giuriste, sociologhe e politiche, che
da decenni combattono senza tregua per salvare la vita alle donne messicane.
Irinea Lima Buendia, madre di Mariana, con Ana Yeli Pérez Garrido. |
I numeri della strage
In Italia nel 2015 sono state uccise 468 persone, uno dei tassi
di omicidi più bassi al mondo; poco meno del 30 per cento, 128, erano
donne. È il nostro primato: in un paese in cui i morti ammazzati calano
drasticamente il numero di donne uccise resta costante e cresce in percentuale.
In Messico la percentuale di femminicidi è “solo” del 10%. Ma in termini
assoluti si tratta di una strage: nel 2015 sono state uccise 2352 messicane,
una media di sette donne al giorno. In un paese in cui nello stesso anno ci
sono stati 20 mila morti, numeri da guerra civile per l’escalation dello
scontro tra cartelli dei narcos e forze armate, su cui ieri è intervenuto anche
il Papa, può sembrare poca cosa. «Ma la battaglia principale è quella contro la
sottovalutazione e l’impunità dei delitti contro le donne» ci spiega Ana. Una
lotta di avanguardia con effetti molto concreti: in Messico “femminicidio” non
è solo un brutto neologismo da usare nel dibattito politico o sui
giornali. Dal 2011 è anche una precisa fattispecie di reato, con aggravanti
pesantissime, inserita nel codice penale.
Ciudad Juarez
«Tutto è iniziato con gli eccidi a Ciudad Juarez, centinaia di
giovani donne rapite, violentate, torturate e uccise a partire dagli anni ‘90
nella totale impunità degli assassini. Prima si sono mobilitate le madri
chiedendo giustizia, poi avvocate, giuriste e politiche». Una battaglia che ha
portato nel 2009 alla condanna del Messico da parte della Corte interamericana
dei diritti umani per la negligenza nella tutela della vita delle donne e ad
una campagna per introdurre nella legislazione la parola femminicidio.
Nel contesto messicano la violenza domestica, il 30% dei casi,
si unisce alla tratta e all’utilizzo delle donne come bottino nella guerra tra
i narcos. «Per questo definire il reato è stato molto complesso –spiega
Ana - ma l’obiettivo era determinare un’attenzione e una presa di coscienza
della società e delle istituzioni su una realtà sottovalutata e negata».
Secondo l’articolo 325 del codice penale federale introdotto dal 2011
(operativo in tutti gli stati tranne, paradossalmente, in quello di Ciudad
Juarez, Chihuahua) il reato di femminicidio si configura come “l’uccisione di
una donna per ragioni di genere”, ossia per il fatto di essere donna. Ragioni
che sussistono quando si verifica almeno una di queste circostanze: il corpo
presenta lesioni infamanti e degradanti, come mutilazioni e bruciature, ci sono
segni di violenza sessuale, la vittima è stata segregata, c’è una relazione di
intimità con il presunto assassino, il corpo è abbandonato sulla strada,
esistono precedenti di violenza o molestie in famiglia, nel luogo di lavoro o
studio tra la vittima e il presunto assassino.
Allerta di genere
Oltre alla tipizzazione del reato, nel 2007 la “legge
generale di accesso delle donne ad una vita libera da violenza” ha
previsto anche il dispositivo dell’“allerta di genere” nel caso di violazioni
dei diritti umani delle donne ripetute e gravi, allerta sollecitata da ong e
associazioni femminili. «Una delle prima richieste di proclamazione dell’allerta
di genere l’abbiamo rivolta all’Edomex allora governato dall’attuale presidente
del Messico Peña Nieto – racconta Ana – avevamo raccolto dati che certificavano
come tra il 2005 e il 2010 in quello stato si fossero verificati 922
femminicidi. Nel 2010 abbiamo richiesto l’allerta, contro cui il governatore ha
più volte fatto ricorso, fino a che una sentenza del 2015 per la prima volta ci
ha dato ragione, stigmatizzando il fatto che nel tempo trascorso lo Stato si
era reso responsabile per omissione di un aumento di femminicidi nell’area». In
questo momento l’allerta di genere è stato proclamato in quattro stati e sono
pendenti altre 20 richieste. Sui giornali locali quotidianamente si trovano
notizie e appelli sul tema, come nello stato di Michoacan, uno di quelli a
maggior tasso di criminalità dove nei primi sei mesi del 2016 ci sono stati 437
femminicidi e da giugno è in vigore l’allerta di genere. In alcuni municipi
sono state attivate le cosiddette “pattuglie di polizia di genere”. Gli
effetti concreti? «Decretare l’allerta significa innanzitutto prendere atto che
il problema della violazione dei diritti delle donne, a partire da quello alla
vita, in quella determinata area esiste –dice Ana- Ma incontriamo
moltissime resistenze presso le autorità. Una volta che l’allerta è
attivato il governo ha il dovere di mettere in atto azioni preventive, di
indagine e di sicurezza che vengono poi monitorate dalle associazioni».
Ma la battaglia più dura è quella contro l’impunità, un problema
che in Messico non riguarda solo le donne: «Il tasso di impunità è pari al 98%,
nel caso dei femminicidi è del 99%». Solo il 30 % dei femminicidi viene
riconosciuto come tale nei tribunali, con le aggravanti del caso (fino a 70
anni di carcere) e da quando il reato è stato introdotto nel codice penale dal
2012 al 2015 ci sono state solo 169 sentenze di femminicidio. «Quello contro
cui ci scontriamo ogni giorno prima ancora della corruzione è una impunità
funzionale dei servitori dello stato, se lavorano male nessuno li punisce– dice
Ana – nella polizia, nei tribunali non c’è preparazione e permane una
sostanziale tendenza a sottovalutare i delitti contro le donne e a
criminalizzare le vittime. Ho assistito il padre di un ragazza uccisa che si è
scontrato per anni contro le autorità che non indagavano sulla morte della
figlia, l’unica che lo ha aiutato è stata una funzionaria che gli ha scritto un
ricorso, però lo ha fatto di nascosto perché non voleva inimicarsi il sistema».
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Pubblicato su Metro il 25 settembre 2019
Il reato di femminicidio in America Latina
Messico, Costa Rica, Guatemala, Cile, Salvador, Perú e Nicaragua
sono i paesi in cui la legge penale ha introdotto il femminicidio come reato.
La parola femminicidio è un neologismo utilizzato per la prima
volta dalla femminista americana Diana Russell nel 1992, nel libro
Femicide: The Politics of woman killing, attraverso l’utilizzo di questa nuova
categoria criminologica, per parlare di un crimine d’odio nei confronti delle
donne.