In una lettera aperta pubblicata sul sito della libreria
delle donne la filosofa Luisa Muraro mi onora di un rimprovero per un mio editoriale uscito su Metro
(che si può leggere qui) a commento della notizia dell’apertura della Chiesa
anglicana alle donne vescove a cui Metro ha dedicato la prima pagina (che
potete vedere qui accanto). Di seguito la mia risposta.
Qui la lettera aperta di Luisa Muraro
Cara Luisa Muraro
Partiamo dal fondo, e cioè dal fatto che Metro, giornale
gratuito a larga diffusione, ha scelto di dare alla decisione della Chiesa
Anglicana di consentire alle donne di diventare vescove tutta la prima pagina, con
il titolo “Pari Opportunità”. Una
scelta opinabile ma di cui sono piuttosto fiera: tra le tante notizie di quel
giorno la maggior parte dei quotidiani ha aperto sull’eterno dibattito delle riforme,
ossia il solito rimpallo di dichiarazioni di questo o quello, nel caso uno
scontro al testosterone tra Grillo e Renzi e non mi dispiace affatto che Metro invece abbia preferito
dare rilievo ad una notizia che riguarda le donne e il dibattito vivo all’interno
di una Chiesa, purtroppo non la nostra, sulle questioni di genere. Il titolo
poi, pari opportunità, descrive un fatto, per alcuni persino una buona notizia,
per me lo è, mentre per te non lo è.
Ma in ogni caso una notizia che racconta un cambiamento in atto.
Venendo al mio commento, inutile girarci intorno, un po' mi fa male che a te, filosofa e maestra di pensiero, non sia piaciuto. Se tocca
spiegare quello che si voleva dire, evidentemente non ci si è spiegati bene. Però il tema è importante e ci riprovo. Pensavo
di aver scritto una piccolissima cosa che con una rappresentazione plastica,
cioè la difficoltà che ancora abbiamo a coniugare parole e ruoli inediti per le donne
(vescovo, vescova, cappellano, cappellana), raccontasse l’esperienza
sideralmente diversa dalla nostra quotidianità di una donna immigrata che in
Gran Bretagna forse diventerà vescova. E come questa difficoltà linguistica nasconda
una resistenza oggettiva, non mia ma collettiva, a pensare in un modo
“differente” e aggiornato i ruoli e il posto delle donne all’interno della
società. Sbaglio?
Che non sia un problema solo mio, lo testimonia la pubblicazione
di un manuale rivolto a chi si occupa di comunicazione come “Donne, grammatica
e media” a cura dell’associazione di giornaliste Giulia, stilato dalla
linguista Cecilia Robustelli che ho intervistato sempre per Metro, due giorni
dopo (una pura coincidenza). Chi fa il duro sporco lavoro di cronista, lo sa:
fuggire dagli stereotipi, dalle scorciatoie linguistiche più rapide e
“orecchiabili” impone una disciplina e uno sforzo costante di vigilanza su se
stessi e sugli altri, perché nella vita reale è un continuo e velocissimo andare avanti e
indietro tra nuovi ruoli e vecchie parole, tra forzature linguistiche e resistenze. Raccontare questa
difficoltà onestamente in un articolo su un giornale popolare serve semplicemente a portare in primo
piano un problema vero, concreto e francamente credo non così agilmente
liquidabile come una mancanza di coraggio o peggio come un “mio nascondermi”
dietro i provinciali standard
italiani. Direi anzi il contrario.
Con immutata stima e ammirazione
Paola Rizzi
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