Lotoro a Terezin. |
All’allievo di Dvorák Rudolf Karel, detenuto
e torturato in un carcere di Praga dopo l’occupazione tedesca, come a tutti i
prigionieri politici era vietato scrivere. Colpito dalla dissenteria approfittava
delle soste in infermeria per comporre su carta igienica con il carbone
vegetale quella che sarebbe divenuta un’opera in cinque atti, salvata grazie
alla complicità di un secondino. Karel morì poi a Terezín. Il musicista Hans
Van Collem, invece, nel lager olandese di Westerbork (dove passò anche Anna
Frank), usava i campi di patate come un pentagramma, poi chiedeva ai compagni
di memorizzare le note incise nella terra per trascriverle su carta igienica:
così compose il Salmo 100 per coro maschile che venne cantato di
nascosto nelle latrine. Il tenente Giuseppe Capostagno, imprigionato dagli
inglesi a Yol (India), scrisse lì la sua Himalayana Suite per orchestra;
mentre in Algeria, nel campo di Saïda, il compositore e ufficiale italiano
Berto Boccosi scrisse l’opera in tre atti La Lettera Scarlatta.
Il manoscritto de La Lettera Scarlatta |
«Un capolavoro», dice Francesco Lotoro, 53 anni,
pianista, compositore e soprattutto ricercatore infaticabile di Barletta che da
30 anni insegue in tutto il mondo ciò che si è salvato della musica creata nei
campi di concentramento, frugando negli archivi e intervistando i
sopravvissuti. «Sono partito da una curiosità personale, poi è diventato
altro, la necessità di colmare un gap di 70 anni per far rivivere un pezzo importante
di musica del Novecento rimasta nascosta, che oggi pretende di essere
riascoltata». La sua ricerca, grazie a cui rappresenta un’autorità mondiale sul
tema, va dal 1933 (data di apertura del primo campo a Dachau) al 1953 (con
l’amnistia per gli ultimi prigionieri tedeschi nei Gulag) e raccoglie materiali
di ebrei, cristiani, zingari, sufi, comunisti, prigionieri civili e militari
detenuti in tutti gli angoli del mondo durante la Seconda guerra mondiale,
dall’Europa al Giappone, dalle Filippine al Suriname.
Lotoro ha fondato a Barletta l’Istituto di Letteratura
Musicale Concentrazionaria e ha raccolto circa ottomila partiture, 12 mila
documenti, centinaia di interviste. Sta pubblicando il Thesaurus Musicae
Concentrationariae, enciclopedia in 12 volumi che dovrebbe essere terminata
nel 2022. La sua storia è raccontata anche nel docufilm The Maestro
del regista franco-argentino Alexandre Valenti, che uscirà in Italia il 23
gennaio. Un’occasione per accendere i riflettori anche su un progetto
visionario, per ora solo in parte finanziato: creare in una ex distilleria di
Barletta una Cittadella della musica concentrazionaria: uno spazio che ospiterà
un archivio, un campus e un teatro «dove ridare voce a opere create nei campi
ma mai eseguite, come Renaissance, la mimo-opera della durata di due
giorni composta dal francese Émile Goué in un campo in Germania», afferma
Lotoro.
Filo rosso del suo lavoro è svelare come la musica “in
cattività” rappresentasse spazi veri di libertà, vie di fuga: un’immagine
lontanissima da quella sinistra dell’orchestra di Auschwitz (che suona per il
piacere sadico degli aguzzini mentre i deportati vanno alla morte) o dei
concerti di Terezín (concessi al fine di trasmettere una visione edulcorata del
lager). «Pochissima della musica prodotta dai campi è stata commissionata, solo
lo 0,5%», dice Lotoro. «Ovunque ci sia stata una realtà concentrazionaria si è
sviluppata creatività musicale, e la necessità fa virtù: in quei lager si è
fatta anche molta sperimentazione». A Terezín il compositore ebreo Viktor
Ullmann, allievo di Schönberg che fu ucciso insieme alla moglie ad Auschwitz,
oltre a scrivere opere importanti fondò e diresse lo Studio für Neue Musik, che
promuoveva i giovani compositori internati.
La partitura di Rudolf Karel su carta igienica. |
Tra le mille storie c’è n’è una di cui Lotoro ha
raccolto il testimone, quella del polacco Aleksander Kulisiewicz. Arrestato nel
1940 per un articolo contro i collaborazionisti, fu deportato a Sachsenhausen,
vicino a Berlino, dove mise a disposizione dei compagni di prigionia la sua
memoria prodigiosa imparando canti e musiche perché non si disperdessero.
«Tutti andavano da lui, anche gli ebrei lo pregarono di memorizzare i loro
salmi». ricorda il pianista e studioso pugliese. Scampato alla marcia della
morte nel 1945 e ricoverato a Cracovia, si pensò fosse impazzito perché cantava
continuamente: «Domandò di qualcuno che lo aiutasse a trascrivere la musica che
aveva in testa, e così vennero raccolte 764 canzoni». Dopo la guerra,
Kulisiewicz continuò la sua ricerca sulla musica dei lager e scrisse più di
2000 pagine, mai pubblicate. «È la mia Bibbia», dice The Maestro, «tutto
è partito da lì».
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