Rubo dalla preziosa newsletter Lsdi.it la traduzione di questo articolo di Hassina Mechaï, giornalista ed esperta di diritto e relazioni internazionali, un duro pamphlet contro il modo con cui molti siti praticano il giornalismo online, pubblicato su Acrimed, rivista francese di critica dei media. Ne condivido ogni virgola.
Di Hassina Mechaï
Qui, dei computer multischermo ben allineati. Niente libri, niente giornali, tranne gli inevitabili Financial Times o Wall Street Journal, breviari del capitalismo più sfoggiati che letti. Sugli schermi si riversano le cifre ben ordinate della speculazione, ordini di acquisto o di vendita di prodotti di cui non si sa nient’ altro se non il loro valore al momento degli scambi. La circolazione come unico valore aggiunto, niente che venga prodotto concretamente, la finanza falsamente razionale per una economia diventata folle. Trader nei punti nodali del pianeta finanza immateriale, l’ economia virtuale a portata di clic.
Lì, dei computer
multischermo ben allineati. Pochi libri, pochi giornali, o almeno solo quelli
che contano fra quelli che ‘’fanno (o disfano) opinione’’. E, da una parte, un
apparecchio televisivo sempre acceso su qualche rete di informazione a ciclo
continuo. Sugli schermi si riversano le informazioni pre-formattate sugli
avvenimenti del giorno: dispacci pronti per essere sottoposti ad assemblaggio o
a rimpasti vari, ma anche siti di informazione di attualità in tempo reale, e
ancora tweet e reti sociali. La messa o rimessa in circolazione di
‘’informazioni’’ prodotte da altri: unico valore aggiunto, la loro messa a
disposizione, a portata di clic.
Giornalisti zombie
Il mestiere di giornalista,
nell’ era di internet, vede le sue regole di base franare lentamente: l’
informazione non deve essere più cercata, verificata, ritagliata. Deve solo
essere ripresa e integrata su delle interfacce. Il sistema di produzione dell’
informazione con la diffusione di dispacci sotto vuoto somiglia sempre di più a
un fastfood in cui non si chiede di cucinare ma di assemblare il più
rapidamente possibile gli ingredienti, in millefoglie indigesti.
Il problema con alcuni siti
di informazione non è tanto che i giornalisti siano inginocchiati davanti ai
poteri, ma che sono completamente seduti, fisicamente seduti, costantemente
seduti. Si assiste così alla nascita di un nuovo mestiere, più da tecnico dell’
informazione che da giornalista. Perché i siti di informazione si contentano
nella maggioranza dei casi di pubblicare una notizia, mettendo titolo e foto il
più sparati possibile. E se questo non basta a riempire lo spazio, si potranno
sempre aggiungere un po’ di reazioni su twitter, le tendenze delle reti
sociali, come se la reazione a una informazione fosse di per sé una notizia, in
una infinita ‘’mise en abyme’’. Per questi giornalisti 2.0 si tratta solo di
integrare i link ficcati qua e là in modo che il tutto dia l’ illusione di
essere frutto di un autentico lavoro giornalistico.
La France Presse, per
esempio, ha già creato un servizio specifico che propone ai suoi clienti
servizi rimpastati a seconda della loro linea editoriale, tenendo conto quindi
dei loro desideri su titoli, foto e link. Una illusione di giornalismo che il
tecnico dell’ informazione del sito in questione si contenterà, senza fare
nient’ altro, di inserire nell’ interfaccia. Solo un link da copiare.
Il turbine del vuoto
Nell’ era di internet, la
diffusione dell’ informazione, che Bourdieu definiva ‘’circolare’’, in quanto i
media si nutrono prima di tutto di altri media, si è follemente accelerata. E
si traduce in un mimetismo quasi universale dei siti di informazione online che
riproducono notizie identiche e interscambiabili. Niente deve andare oltre e
niente può essere superato. Nessuna volontà umana di uniformazione, ma solo la
logica di un sistema che vuole che tutti si abbeverino alla stessa fonte.
In più, alcune redazioni
web adottano dei programmi per scoprire le tendenze, in modo da comparire
il più possibile in quel nuovo tempio sacro del giornalismo che è diventato
Google News. Basta dare (o tentare di dare) semplicemente al lettore quello che
lui desidera leggere affidando a degli algoritmi il compito di scoprire e
creare la relativa linea editoriale.
E oltre alla linea
editoriale, il giornalista si vede anche disputare da questi algoritmi la
scrittura di alcuni articoli, secondo l’ ultima tendenza che arriva dalla
stampa anglosassone. Così, il Los Angeles Times usa già delle
formule matematiche per coprire la cronaca. Secondo il sito
di le Monde Big Browser (18 marzo 2014):
‘’Succede anche che il
quotidiano americano utilizzi degli algortmi per coprire la cronaca. I
giornalisti ricevono ogni giorno un file con tutti gli arresti fatti dalla
polizia di LA. Un algoritmo identifica le professioni delle persone arrestate –
ci sono degli uomini politici? Delle celebrità? -, e può verificare anche chi
ha compiuto l’ infrazione maggiore sulla base dell’ ammontare della cauzione e,
quindi, decidere secondo delle regole stabilite da un programmatore di farne un
articolo o meno. Le prime righe del pezzo vengono quindi redatte da un robot. E
poi tocca a un giornalista arricchirle’’.
La folle circolazione
circolare dell’ informazione spinge poi ai margini dell’ attualità tutte le
informazioni che non risalgono alla superficie della tela, condannandole di
fatti all’ inesistenza mediatica, che significa inesistenza pubblica e
politica. Da cui quell’ impressione di leggere costantemente le stesse cose su
tutti i siti di attualità su cui si capita. Il giornalismo zombie parteciperà
allora a un rituale cannibalico, dove tutti si nutrono di tutti, cosa che
sfocia in una vasta ma vuota attualità cooptativa. La verità dell’ informazione
non è quindi più nella verifica e nella ricostruzione dei fatti ma nella sola
ripetizione o ripresa dell’ informazione (1). Spesso il primo gesto dei
giornalisti online non è verificare una informazione ma assicurarsi se il
concorrente diretto o la testata dominante ne abbiano già parlato. La semplice
deontologia non esiste più, ogni media potendo rifarsela con l’ altro, in caso
di errore, sostenendo che ‘’in tutti i casi la notizia era dovunque’’.
Realtà mediatica e presente
perpetuo
Prima dell’ informazione voodoo,
c’ era stato il concetto di economia voodoo, quella economia folle che pretende
di modellare la realtà degli scambi umani. Con l’ economia voodoo, il mondo non
viene ridotto ad altro che al finanziario, la finanza essendo l’ economia
conquistata dal virtuale e dalla speculazione. Secondo le parole di Viviane
Forrester nel suo saggio sull’
orrore economico, l’ economia voodoo produce una civiltà che
nega il mondo reale e ‘’il famoso mondo come realmente è’’; è un artefatto
totale che impone il suo potere derealizzante: ‘’Venuto fuori da una ideologia,
l’ impero speculativo domina, e destituisce ‘economia’’.
Se l’ economia è diventata
speculativa sotto il giogo della finanza, l’ informazione a sua volta è
diventata incantatoria, traendo la sua realtà dalla ripetizione senza fine
permessa dalla rete. Ma economia e informazione hanno in comune di essere
virtuali e di imporre alla realtà il loro potere, in maniera da pretendere
entrambi di modellarla. Di fatto, sono create entrambe dalle parole magiche, l’
‘’abra ka dabra’’ ebraico (‘’creo con le parole’’), un’ altra realtà. Avviene
attraverso le parole, attraverso il verbo ripetuto, insistente, totalitario, di
trasgredire, di cambiare, di influire sulle leggi della realtà, e quindi della
verità. Con la magia del dispositivo mediatico vengono in vita dei fatti che
non corrispondono affatto o del tutto alla realtà. Proprio come lo stregone
voodoo pretende, a colpi di incantesimi magici, di controllare la realtà
biologica, come l’ economia voodoo pretende, a colpi di incantesimi economici,
di modellare la realtà sociale, l’ informazione voodoo crede, a colpi di
incantesimi mediatici, di poter modellare in generale tutta la realtà (2).
Perché in fin dei conti i
media conferiscono a ogni avvenimento – per il solo fatto di trattarlo – la
qualità dell’ informazione. I fatti che esistono in quanto tali, al di fuori
della coscienza della gente dei media, non possono contare se non attraverso la
loro messa al mondo mediatica, se non diventando ‘’avvenimenti’’ mediatici.
Ecco l’ inversione secondo cui la realtà prende sostanza dalla realtà
mediatica, cioè quello che percepiscono i grandi media: l’ attualità nasce
dalla realtà o la realtà nasce dall’ attualità che viene servita dai media?
Ecco forse perché coloro che
interrogano la verità di questa realtà mediatica rischiano subito di essere
tacciati di ‘’complottismo’’: al di fuori del punto di vista mediatico, che
pretende di consumare il reale, nessuna verità. E come si è potuto parlare di
‘’economia reale’’ in opposizione alla finanza o all’ economia speculativa, si
potrà un giorno parlare di ‘’realtà reale’’ in rapporto alla ‘’realtà mediatica’’?
Il dispositivo mediatico
impone ugualmente un appiattimento dei fatti, che valgono solo in una
informazione mediatica che nega qualsiasi profondità storica e qualsiasi
temporalità che va oltre quella dello ‘’scoop’’ e dell’ attualità immediata. Se
tutto vale allo stesso modo, in questo modo, niente ha più importanza. Visto
che un’ oca che mima una conversazione telefonica riesce a cancellare
facilmente la crisi in Siria o la lotta di migliaia di salariati contro un
piano di licenziamenti.
Questa realtà mediatica basa
la sua forza sulla quasi-immediatezza imposta dall’ informazione a flusso
continuo, che cancella ogni frontiera, ogni sussulto di riflessione, ogni
rimessa in causa, ogni storicità. Il dopo non esiste, il prima non c’ è più,
conta solo il presente immediato come viene percepito dall’ occhio mediatico,
che segmenta il tempo in sequenze autonome, senza memoria e senza legami.
Perché se lo ieri non è mai esistito, questo sistema mediatico non ha
responsabilità e ha sempre ragione, in questo presente perpetuo. E se il domani
non esiste, tutto è permesso…
—–
Note
[1] Il precedente più
noto è la famosa vicenda della falsa strage di Timisoara. Un giornalista
francese inviato a Bucarest che obbiettava al suo redattore capo che non aveva
visto niente del genere in Romania, si vide rispondere di cercare meglio,
perché tutti i media francesi ne avevano parlato.
[2] Gli esempi abbondano e
quello più drammatico può essere stata la seconda guerra in Irak, a colpi di
armi di distruzione di massa introvabili e di presunte implicazioni di Saddam
Hussein negli attentati dell’ 11 settembre. Undici anni dopo il bilancio di una
irresponsabilità mediatica collettiva è questo: da 700 000 a 1.500.000 morti,
un esodo di 2 milioni di irakeni e un paese in preda a tensioni religiose ed
etniche
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