lunedì 30 dicembre 2013

Appunti colombiani


Cellulari

Il capo del villaggio
Foto di Paola Rizzi
Anche in mezzo alla selva amazzonica colombiana c'è campo. Il capo del villaggio di indios Ticuna San Martín, raggiunto dopo una camminata di ore nella selva da Puerto Nariňo, idilliaco avamposto sul rio delle Amazzoni, appena ci siamo presentati fradici e stanchi ci ha chiesto il numero del cellulare e ci ha dato il suo, dopo ci ha rifocillati. Poi ci ha parlato dei problemi di San Martín, poche capanne in una radura in mezzo alla selva, pulitissime e ben tenute: povertà, disinteresse del governo e soprattutto delle agenzie di viaggio che detengono il monopolio dei turisti stranieri e a loro danno le briciole. Vorrebbero gestire direttamente i turisti, per tirare su un po' di soldi. «Una volta i soldi non ci servivano- ci ha detto -ma adesso sì». Il posto è meraviglioso, loro offrono visite guidate nella foresta e alloggio nelle case tradizionali. 


Cellulari e oro

Bambini nel villaggio Tayrona
Foto di Paola Rizzi
Sulla costa caraibica, a Palomino vivono degli indios molto schivi che vanno in giro vestiti di bianco. Sono i Tayrona: ne hanno subite di tutti i colori perché dalle loro parti si supponeva ci fosse l'Eldorado e gli europei quindi hanno setacciato la zona palmo a palmo senza andare troppo per il sottile. In effetti i Tayrona oltre che agricoltori e guerrieri coraggiosi, sono stati artigiani orafi sopraffini. Lo si scopre andando a vedere il Museo dell'Oro di Bogotà che sembrerebbe una pacchianata e invece è un museo meraviglioso che mostra come l'oro nelle culture preispaniche non abbia significato solo ricchezza e avidità, ma moltissime altre cose: bellezza, cultura, spiritualità. Ora i Tayrona vivono nelle riserve, sono poverissimi e molto diffidenti, circondati da una natura selvaggia e lussureggiante. Ogni tanto scendono in paese, tra le altre cose a ricaricare il telefonino. A Palomino mi si è inceppata la macchina fotografica mentre due indios aspettavano che si caricasse il loro cellulare attaccato ad una presa del muro di cinta di una casa disabitata.



Nail art

Non sapevo davvero cosa fosse la nail art fino a quando non sono venuta in Sudamerica. E la Colombia è decisamente al top. Ho visto cose... Il must sono unghie dipinte una diversa dall'altra, poi unghie arabescate nella lunetta esterna. Le mie preferite quella a pois alternate: un'unghia rossa a pois bianchi alternata ad una bianca a pois rossi. La nail art è il lusso e la stravaganza alla portata di tutti: dal villaggio amazzonico alla baracca nei sobborghi di Cartagena, non c'è colombiana che rinunci alla sua unghia di celebrità.





Ortodonzia

Va molto di moda farsi l'apparecchio ai denti, ma solo se si è adulti: quello grosso ben visibile con i vitoni che sporgono, che secondo il mio dentista da noi non si vede più da 20 anni. L'impressione è che sia in qualche modo un segno di status, esibizione ortodontica e compiaciuta di un certo benessere raggiunto in un paese dove le differenze sociali sono abissali e il sorriso una carta di identità del conto in banca. Al punto che anche in un manifesto ufficiale di promozione turistica lo ostenta la ballerina in costume del Caribe, in primo piano con un sorriso a tutto denti e viti.




Graffiti

Graffito lungo la strada che porta all'aeroporto di Bogotà.
foto di Paola Rizzi
A chi non piacciono i graffiti è sconsigliabile visitare la Colombia, Bogotà in particolare. Ogni muro disponibile è considerato dai writers locali un'occasione da non perdere. Ce ne sono tantissimi e grandissimi, con una percentuale di bellissimi insolitamente alta. A Bogotà i graffitari hanno sostanzialmente mano libera e il risultato è un po' psichedelico e perturbante. Come fa notare uno di loro, si contendono gli spazi con i pubblicitari e i manifesti giganti. Per lo più, quanto a inventiva, qualità della forma e forza del messaggio vincono i writers. 




Narcos 

Muretto fatto con bottiglie riciclate a Puerto Nariňo.
Foto di Paola Rizzi
Per quanto la Colombia si sforzi di dare un'immagine depurata dal passato legato alle gesta dei cartelli della droga, la strada è ancora lunga. A Puerto Nariňo, incantevole oasi ecologica sul rio delle Amazzoni, che si vanta di aver applicato un modello urbano ecosostenibile nel cuore della selva, chiunque ha la sua storia da raccontare dei tempi in cui il villaggio era il crocevia del narcotraffico con Brasile e Perù, il cosiddetto Trapezio amazzonico. Un via vai ad alto tasso di violenza che negli anni Ottanta e Novanta trasformarono la comunità, 6000 abitanti in prevalenza indios Ticuna, in un'enclave di fuori legge. Andando a spasso con una guida vi indicano le vestigia di un recente passato di crimini e ricchezza facile. Là c'è l'albergo aperto dal figlio di un narcos, ora chiuso e in rovina, dove si facevano le feste e dove passò le sue vacanze anche Pablo Escobar, il narcotrafficante più famoso del mondo. Verso il fiume ci sono le belle ville dei narcos trasformate in appartati resort. Nostalgia per quei bei tempi di vacche grasse? "Giravano molti soldi, ma c'era molta violenza- mi racconta la guida, un indios Ticuna-  un giorno uno era ricco, il giorno dopo non aveva niente. Molti di quelli che si sono arricchiti con il traffico, una volta finita quella epoca, hanno perso tutto". Ma loro, i narcos, dove sono spariti? La fine del cartello di Medellin con la morte di Pablo Escobar e la frammentazione del cartello di Cali ha costretto tutti a moderarsi. In realtà finita la stagione dei grandi monopoli e quella sorta di potere antistato con ambizioni di grandezza sognato da Escobar, è rimasto il “normale" traffico di droga dove ogni gruppo lavora per sè, in modo meno appariscente. "A Puerto Nariňo, i narcos o gli ex narcos vengono adesso solo a passare le vacanze, come normali turisti", dice la guida. Le cronache raccontano un'altra storia. Però hanno dismesso la sfrontatezza e l'arroganza degli anni Novanta e non agiscono più alla luce del sole. Così i turisti possono godersi il panorama.

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