lunedì 10 aprile 2017

Napoleoni: perché siamo responsabili del business degli ostaggi e dei migranti

Non sempre lo Stato italiano ha la fama di cattivo pagatore. C’è un business emergente, che secondo Europol nel solo 2015  ha superato i 2 miliardi di dollari e che preferisce  trattare con l’Italia che con altri governi: è quello dei sequestri in aree di crisi, come Siria, Iraq, ora Libia, che immette fiumi di soldi nelle tasche di gruppi jihadisti e criminali. Nel caos libico nonostante la guerra civile le imprese italiane non hanno mai smesso di lavorare, l’Eni continua ad assicurare l’elettricità a buona parte della Cirenaica, mentre dalle coste partono barconi zeppi di migranti verso la Sicilia e nel deserto i lavoratori italiani vengono rapiti, sei tra il 2015 e il 2016. «Non se ne parla, loro smentiscono, ma l’Italia pur di mantenere i suoi interessi in Libia è disposta a pagare pegno, con i riscatti». È la tesi, sostenuta da molte testimonianze, dell’economista Loretta Napoleoni nel suo ultimo libro “Mercanti di uomini” (Rizzoli, p.360, 18,50 euro) che ricostruisce i nuovi canali di finanziamento del terrorismo: dall’11 settembre in poi i sequestri sono cresciuti esponenzialmente e gli stessi gruppi trattano anche l’altra merce umana, i migranti.  

«La svolta è stata nel 2003 con il rapimento di 32 europei nel Maghreb -spiega Napoleoni - che ha fruttato 5 milioni e mezzo di euro». Per l’Italia il clou  arriva nel 2004 con il rapimento in Iraq delle due Simone, cooperanti della onlus un Ponte per. E nel 2014 l’Italia  avrebbe pagato “una frazione di Pil”, secondo la battuta di un funzionario, per liberare le due cooperanti Greta e Vanessa rapite in Siria. In entrambi i casi Napoleoni mette in luce l’incompetenza e l’improvvisazione con la quale i soggetti si sono mossi in territori pericolosi, dato che accomuna anche molti dei giornalisti vittime di sequestri, come James Foley poi decapitato e John Cantlie, utilizzato dall'Isis in video di propaganda.  «La maggior parte erano free lance, velleitari e senza coperture, perché i giornali non rischiano più mandando i loro inviati».

C’è poi il caso Somalia, stato fallito dopo il tentativo naufragato di esportarvi la democrazia: «Le milizie  si sono prima finanziate con la pirateria, poi si sono riciclate nel traffico di migranti, meno redditizio ma meno costoso».

Non mancano i paradossi: partire dal porto libico di Sirte, quando era controllata dall’Isis, era per i migranti più caro ma più sicuro, i jihadisti imponevano un tetto di 120 migranti per barca per massimizzare i profitti. Strazianti le testimonianze raccolte da Napoleoni delle vittime della tratta, tenute loro stesse in ostaggio dalle bande, le famiglie costrette a pagare i riscatti, poi vendute più volte prima di poter salire sui barconi, con una resa per ogni “migrante" di migliaia di dollari.  La differenza con gli ostaggi occidentali è che in questo caso non entrano gioco i negoziatori, pubblici e privati, una nuova professione in grande sviluppo.

 La via d’uscita? «Smettere di pagare i riscatti e chiudere le frontiere. Quando Merkel le ha aperte avrebbe dovuto fare i ponti aerei, così ci hanno guadagnato i trafficanti.  È  realismo. L’unica possibilità è che Putin e Trump facciano un accordo per pacificare il Medio Oriente».

©Riproduzione riservata

Pubblicato su Metro il 23 gennaio 2017 


domenica 9 aprile 2017

Francesco Lotoro, il cacciatore di musica ribelle scritta nei lager


Lotoro a Terezin.


All’allievo di Dvorák Rudolf Karel, detenuto e torturato in un carcere di Praga dopo l’occupazione tedesca, come a tutti i prigionieri politici era vietato scrivere. Colpito dalla dissenteria approfittava delle soste in infermeria per comporre su carta igienica con il carbone vegetale quella che sarebbe divenuta un’opera in cinque atti, salvata grazie alla complicità di un secondino. Karel morì poi a Terezín. Il musicista Hans Van Collem, invece, nel lager olandese di Westerbork (dove passò anche Anna Frank), usava i campi di patate come un pentagramma, poi chiedeva ai compagni di memorizzare le note incise nella terra per trascriverle su carta igienica: così compose il Salmo 100 per coro maschile che venne cantato di nascosto nelle latrine. Il tenente Giuseppe Capostagno, imprigionato dagli inglesi a Yol (India), scrisse lì la sua Himalayana Suite per orchestra; mentre in Algeria, nel campo di Saïda, il compositore e ufficiale italiano Berto Boccosi scrisse l’opera in tre atti La Lettera Scarlatta.
Il manoscritto de La Lettera Scarlatta

«Un capolavoro», dice Francesco Lotoro, 53 anni, pianista, compositore e soprattutto ricercatore infaticabile di Barletta che da 30 anni insegue in tutto il mondo ciò che si è salvato della musica creata nei campi di concentramento, frugando negli archivi e intervistando i sopravvissuti. «Sono partito da una curiosità personale, poi è diventato altro, la necessità di colmare un gap di 70 anni per far rivivere un pezzo importante di musica del Novecento rimasta nascosta, che oggi pretende di essere riascoltata». La sua ricerca, grazie a cui rappresenta un’autorità mondiale sul tema, va dal 1933 (data di apertura del primo campo a Dachau) al 1953 (con l’amnistia per gli ultimi prigionieri tedeschi nei Gulag) e raccoglie materiali di ebrei, cristiani, zingari, sufi, comunisti, prigionieri civili e militari detenuti in tutti gli angoli del mondo durante la Seconda guerra mondiale, dall’Europa al Giappone, dalle Filippine al Suriname.

Lotoro ha fondato a Barletta l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria e ha raccolto circa ottomila partiture, 12 mila documenti, centinaia di interviste. Sta pubblicando il Thesaurus Musicae Concentrationariae, enciclopedia in 12 volumi che dovrebbe essere terminata nel 2022. La sua storia è raccontata anche nel docufilm The Maestro del regista franco-argentino Alexandre Valenti, che uscirà in Italia il 23 gennaio. Un’occasione per accendere i riflettori anche su un progetto visionario, per ora solo in parte finanziato: creare in una ex distilleria di Barletta una Cittadella della musica concentrazionaria: uno spazio che ospiterà un archivio, un campus e un teatro «dove ridare voce a opere create nei campi ma mai eseguite, come Renaissance, la mimo-opera della durata di due giorni composta dal francese Émile Goué in un campo in Germania», afferma Lotoro.

Filo rosso del suo lavoro è svelare come la musica “in cattività” rappresentasse spazi veri di libertà, vie di fuga: un’immagine lontanissima da quella sinistra dell’orchestra di Auschwitz (che suona per il piacere sadico degli aguzzini mentre i deportati vanno alla morte) o dei concerti di Terezín (concessi al fine di trasmettere una visione edulcorata del lager). «Pochissima della musica prodotta dai campi è stata commissionata, solo lo 0,5%», dice Lotoro. «Ovunque ci sia stata una realtà concentrazionaria si è sviluppata creatività musicale, e la necessità fa virtù: in quei lager si è fatta anche molta sperimentazione». A Terezín il compositore ebreo Viktor Ullmann, allievo di Schönberg che fu ucciso insieme alla moglie ad Auschwitz, oltre a scrivere opere importanti fondò e diresse lo Studio für Neue Musik, che promuoveva i giovani compositori internati.
La partitura di Rudolf Karel su carta igienica.


Tra le mille storie c’è n’è una di cui Lotoro ha raccolto il testimone, quella del polacco Aleksander Kulisiewicz. Arrestato nel 1940 per un articolo contro i collaborazionisti, fu deportato a Sachsenhausen, vicino a Berlino, dove mise a disposizione dei compagni di prigionia la sua memoria prodigiosa imparando canti e musiche perché non si disperdessero. «Tutti andavano da lui, anche gli ebrei lo pregarono di memorizzare i loro salmi». ricorda il pianista e studioso pugliese. Scampato alla marcia della morte nel 1945 e ricoverato a Cracovia, si pensò fosse impazzito perché cantava continuamente: «Domandò di qualcuno che lo aiutasse a trascrivere la musica che aveva in testa, e così vennero raccolte 764 canzoni». Dopo la guerra, Kulisiewicz continuò la sua ricerca sulla musica dei lager e scrisse più di 2000 pagine, mai pubblicate. «È la mia Bibbia», dice The Maestro, «tutto è partito da lì».

©Riproduzione riservata



Pubblicato il 22 gennaio 2017 su Pagina99