venerdì 4 settembre 2015

Profughi buoni e cattivi

L'immagine postata da Banksy
La politica è una cosa sporca e il meglio e nemico del bene. Fatte queste premesse di cultura generale trovo quasi insopportabile che Cameron siccome il Guardian gli ha sparato la foto del piccolo siriano  Aylan morto sulla spiaggia allora, dopo probabile consultazione dei sondaggi, abbia repentinamente ammorbidito la linea sui profughi, solo i siriani però. Così come trovo altrettanto insopportabile che la Merkel (quella che aveva fatto piangere la bambina siriana in diretta tivù dicendo che non c'era posto per tutti) ora meritoriamente abbia cambiato linea, ma distinguendo tra profughi buoni e cattivi, anzi peggio, distinguendo su basi etniche: i siriani sì ma gli altri, tipo gli eritrei (quelli sì che fanno una bella vita) o i somali, o i nigeriani che scappano da Boko Haram, no. Queste distinzioni sono la morte civile dei diritti umani. I profughi o sono profughi o non lo sono e a me francamente questi distinguo sembrano più pericolosi, sul piano simbolico e sostanziale, della questione dei migranti "marchiati" col pennarello, una rozzezza lugubre, ma di superficie. Quello che sta accadendo non è una cosa piacevole e desiderabile per nessuno, né per chi fugge, né per noi, perché certo non potrà non avere effetti sulla nostra finora discreta vita. Ma è come una gigantesca frana. Forse ai primi segnali avremmo potuto evitarla, ora non più, è diventata un'enorme catastrofe naturale e non resta che seppellire i morti, curare i feriti e dare un tetto agli sfollati. Dopo di che, almeno salviamo e accogliamo i siriani, ma in fretta però, perché la frana continua a muoversi.


mercoledì 2 settembre 2015

L'incredibile storia della Tata fotografa



Bisogna inerpicarsi lungo strade tortuose nel cuore della Sardegna per raggiungere il Man, il Museo di arte contemporanea di Nuoro. Città cresciuta male in epoca fascista come avamposto di caserme e tribunali nella terra del banditismo, dal 1999 ospita un museo importante (gestito fino al 2012 da Cristiana Collu, uno dei 20 direttori-manager appena promossi da Franceschini) che ha scommesso molto e vissuto pericolosamente, legato alla sorte della Provincia, in asfissia da rottamazione. Ma è proprio questo luogo così eccentrico geograficamente, ora diretto da Lorenzo Giusti, che si è aggiudicato, tra una personale di Giacometti e una prossima su Paul Klee, la prima mostra italiana di un’eccentrica per definizione, ormai oggetto di un culto planetario santificato nei principali musei americani e europei: Vivian Maier, volgarmente nota come la tata fotografa, la bambinaia americana che solo dopo la morte, grazie al ritrovamento di più di centocinquantamila rullini, molti mai sviluppati, si è scoperto essere un genio della street photography.

Sospendendo il giudizio sul personaggio e limitandosi a guardare le 120 immagini, alcune inedite, dell’allestimento del Man, molti scatti rubati di persone nelle New York e Chicago degli anni ’50 e ‘60, i ritratti di bambini,  gli scatti dei quartieri degradati, oltre a provini e filmati, la grandezza di tata Vivian è indiscutibile: colpiscono il pudore e insieme la verità dello sguardo della Maier capaci di restituire un’istantanea spietata della società americana, immortalata a partire dalla strada, dove prima o poi passano  tutti, poveracci e borghesi, star di Hollywood e delinquenti, con un’attenzione particolare per i margini, dove l’american dream si infrange. Discorso a parte i bellissimi autoritratti, ai quali la Maier si è dedicata compulsivamente per tutta la vita, in cui si mostra sfuggente, quasi assente, ossessivo punto focale nel contesto ricercato dell’inquadratura. La Vivian reale la troviamo forse in due foto scattate da altri, visibili nel bel catalogo, così leggiadra e sorridente da farci vagheggiare di amori e vita sociale.

Ma inutile scantonare: la fascinazione  della Maier sta anche nel suo mistero. Amplificato dalla vicenda disneyana raccontata nel documentario Finding Vivian Maier, candidato all’Oscar nel 2015, visibile al Man,  che parte dal ritrovamento casuale dei famosi rullini acquistati ad un’asta per 400 dollari (oggi ogni foto vale dai 2000 dollari in su) dal giovane nerd immobiliarista John Maloof, il quale si mette sulle tracce dell’autore, che si rivela una bambinaia zitella morta povera nel 2009 a 83 anni, che mai – questo l’enigma più grande – ha cercato di divulgare le sue opere. Di lei alla fine si sa solo quello che le famiglie per cui ha lavorato raccontano, quasi nulla: una persona stramba e riservatissima, mezza francese per parte di madre, vestita come “un’operaia comunista”, che si portava sempre dietro quei misteriosi scatoloni e appena poteva usciva con la sua Rolleiflex.  Anche una però che nelle pause dei suoi lavori nelle case borghesi ha viaggiato per tutto il mondo: Europa, Sudamerica, Filippine, Vietnam, Thailandia, Giappone, Egitto, Yemen. E sarà interessante quando il fortunato e intelligente Maloof, ormai principale collezionista della Maier,  ci farà conoscere anche i suoi reportage dal mondo.
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 Pubblicato su Cultweek   il 2 settembre 2015