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venerdì 4 settembre 2015
Profughi buoni e cattivi
mercoledì 2 settembre 2015
L'incredibile storia della Tata fotografa
Bisogna inerpicarsi lungo strade
tortuose nel cuore della Sardegna per raggiungere il Man, il Museo di arte
contemporanea di Nuoro. Città cresciuta male in epoca fascista come avamposto
di caserme e tribunali nella terra del banditismo, dal 1999 ospita un museo
importante (gestito fino al 2012 da Cristiana Collu, uno dei 20
direttori-manager appena promossi da Franceschini) che ha scommesso molto e
vissuto pericolosamente, legato alla sorte della Provincia, in asfissia da
rottamazione. Ma è proprio questo luogo così eccentrico geograficamente, ora
diretto da Lorenzo Giusti, che si è aggiudicato, tra una personale di
Giacometti e una prossima su Paul Klee, la prima mostra italiana di
un’eccentrica per definizione, ormai oggetto di un culto planetario santificato
nei principali musei americani e europei: Vivian Maier,
volgarmente nota come la tata fotografa, la bambinaia americana che solo dopo
la morte, grazie al ritrovamento di più di centocinquantamila rullini, molti
mai sviluppati, si è scoperto essere un genio della street photography.
Sospendendo il giudizio sul
personaggio e limitandosi a guardare le 120 immagini, alcune inedite,
dell’allestimento del Man, molti scatti rubati di persone nelle New York e Chicago
degli anni ’50 e ‘60, i ritratti di bambini, gli scatti dei quartieri
degradati, oltre a provini e filmati, la grandezza di tata Vivian è
indiscutibile: colpiscono il pudore e insieme la verità dello sguardo della
Maier capaci di restituire un’istantanea spietata della società americana,
immortalata a partire dalla strada, dove prima o poi passano tutti,
poveracci e borghesi, star di Hollywood e delinquenti, con un’attenzione
particolare per i margini, dove l’american dream si infrange. Discorso a parte
i bellissimi autoritratti, ai quali la Maier si è dedicata compulsivamente per
tutta la vita, in cui si mostra sfuggente, quasi assente, ossessivo punto
focale nel contesto ricercato dell’inquadratura. La Vivian reale la troviamo
forse in due foto scattate da altri, visibili nel bel catalogo, così leggiadra
e sorridente da farci vagheggiare di amori e vita sociale.
Ma inutile scantonare: la
fascinazione della Maier sta anche nel suo mistero. Amplificato dalla
vicenda disneyana raccontata nel documentario Finding Vivian Maier,
candidato all’Oscar nel 2015, visibile al Man, che parte dal ritrovamento
casuale dei famosi rullini acquistati ad un’asta per 400 dollari (oggi ogni
foto vale dai 2000 dollari in su) dal giovane nerd immobiliarista John Maloof,
il quale si mette sulle tracce dell’autore, che si rivela una bambinaia zitella
morta povera nel 2009 a 83 anni, che mai – questo l’enigma più grande – ha
cercato di divulgare le sue opere. Di lei alla fine si sa solo quello che le
famiglie per cui ha lavorato raccontano, quasi nulla: una persona stramba e
riservatissima, mezza francese per parte di madre, vestita come “un’operaia
comunista”, che si portava sempre dietro quei misteriosi scatoloni e appena
poteva usciva con la sua Rolleiflex. Anche una però che nelle pause dei
suoi lavori nelle case borghesi ha viaggiato per tutto il mondo: Europa,
Sudamerica, Filippine, Vietnam, Thailandia, Giappone, Egitto, Yemen. E sarà
interessante quando il fortunato e intelligente Maloof, ormai principale
collezionista della Maier, ci farà conoscere anche i suoi reportage dal
mondo.
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