lunedì 18 luglio 2016

La fabbrica dell'arte in Corea del Nord

Come fai se sei un paese dell’asse del male a far entrare valuta pregiata aggirando sanzioni ed embargo? Parlando di Corea del Nord è fatale pensare a traffici di armi, la principale, se non l’unica, industria fiorente del Paese. Anche nella versione moderata e in gessato mostrata nei giorni scorsi al primo congresso del partito dopo 36 anni dal giovane leader Kim Jong Un, detto il Gran Sole della nazione, si capisce che il cuore batte sempre forte per l’atomica e l’industria degli armamenti.
Meno ovvio immaginare che tra le risorse insospettabili, e legali, di questa nazione misteriosa, sempre in bilico tra farsa e tragedia, c’è anche la produzione artistica, che costituisce una delle voci dell’export nordcoreano. L’opera d’arte nell‘epoca della riproducibilità tecnica, diceva Walter Benjamin nel 1936 alludendo all’evoluzione dell’esperienza estetica nell’intreccio tra arte, tecnica, potere e controllo delle masse. Chissà cosa avrebbe pensato e scritto se avesse potuto visitarne una plastica e didascalica rappresentazione nella gigantesca fabbrica dell’arte di Mansudae, si dice la più grande del mondo, nel cuore di Pyongyang: 120 mila metri quadri, con 4000 addetti di cui un migliaio artisti, selezionati duramente nelle accademie e università locali. Una megastruttura all’interno della quale si trovano fonderie, cartiere, laboratori, gallerie, un museo, anche campi di calcio per la ricreazione.

Il Mansudae art studio nasce nel 1959 per glorificare attraverso pittura e soprattutto sculture monumentali extra large il Caro leader Kim Il Sung e i suoi discendenti, con una vocazione esclusiva di arte pubblica. Anche perché, ovviamente, in Corea del Nord non esiste un mercato privato, nemmeno dell’arte. Dalle fucine dello stabilimento sono usciti i ritratti colossali dei padri della patria che dominano la vita del nordcoreano ad ogni angolo di strada. Ma nel 1970 la Mansudae prende un’altra piega, si apre al mercato estero e come Mansudae Overseas Projects diventa un marchio export, soprattutto dell’arte monumentale, per la quale garantisce competenza tecnica, manodopera qualificata a basso costo e quel gusto dell’enfasi che piace ad un certo tipo di committenza, di solito i dittatori.

Il Rinascimento Africano a Dakar
Sono soprattutto i paesi africani, ma non solo, a ricercare le monumentali statue che non temono l’iperbole. Polemiche roventi si è guadagnata nel 2010 la ciclopica scultura realizzata su una collina che domina Dakar, in Senegal. Titolo, il Rinascimento Africano, un gruppo bronzeo di 49 metri accolto da proteste anche di piazza per la sua bruttezza, le fattezze poco africane e troppo coreane dei personaggi, gli abiti scandalosamente succinti in un paese musulmano e i costi iperbolici: 27 milioni di dollari pagati in acri di terra ceduti a Pyongyang. Questa sezione estera del Mansudae avrebbe fruttato al governo norcoreano, secondo stime del Daily NK giornale sudcoreano dedito a svelare i misteri del Nord, solo nella prima decade del duemila ben 160 milioni di dollari. Di tutto questo ben di dio non un dollaro ovviamente è finito agli artisti e alle maestranze del Mansudae, che sono semplici lavoratori salariati come tutti i loro connazionali.

Accanto al dipartimento di scultura si è sviluppato un mercato di prodotti più smerciabili anche per gli acquirenti privati overseas: si tratta soprattutto di oli, opere grafiche, xilografie, raffinate chine su carta, ricami e poster. Il mercato in passato è stato soprattutto quello cinese, ma dal 2005 è diventato referente per l’Occidente il fiorentino Pier Luigi Cecioni, arrivato a Pyongyang quasi per caso al seguito di un’orchestra toscana di cui allora era presidente e che ha già realizzato in Italia diverse mostre, la prima a Genova nel 2007, inaugurata da Dini, che come ministro degli esteri aveva riaperto il dialogo con i nordcoreani. Alla galleria Deodato arte Milano in questi giorni fino al 31 maggio è possibile vedere una scelta di opere curata dallo stesso Cecioni. Piacerà sicuramente ai cultori del genere un olio che celebra la storica vittoria della Corea del Nord sull’Italia di Fabbri  ( foto di apertura) ai Mondiali del 1966 in Inghilterra, una sorta di istantanea del momento del gol del tipografo Pak Doo ik che beffa un imprecisato difensore azzurro, nel quadro per la verità dai tratti marcatamente asiatici. Di Pak Doo ik e di altri giocatori della celebre impresa ci sono anche vari ritratti in giacca e cravatta. Ma le tecniche di cui gli artisti di Madsudae sono maestri sono quelle più tradizionali, la china su carta che ora chiamano Korean painting e la xilografia.

Tak Hyo Yon, Coppa del mondo 1966

La realtà rappresentata non tollera tristezze, secondo gli stilemi classici del realismo socialista d’antan, in una sorta di congelamento temporale che ben esprime l’isolamento in cui vive il Paese: lavoratori sorridenti dagli sguardi fieri, famiglie ilari e paffute che fanno allegri pic nic, al massimo è ammessa la malinconia della natura. In generale i soggetti sono celebrazioni del lavoro, delle imprese militari e dell’“allegra“ vita quotidiana, ma nella mostra milanese largo spazio è dato ai paesaggi, alle nature morte e alle opere calligrafiche, che ricalcano emi propri dell’iconografia tradizionale pre-regime. Con varie specializzazioni: c’è il maestro delle tigri, il maestro delle onde che realizza solo marine, il maestro delle montagne.

Gang Hyon Chol, Lago Chol.



“Non esiste arte che non sia figurativa –spiega Cecioni – non fa parte della loro formazione l’astrazione. Gli artisti coreani conoscono l’arte classica, ma ignorano quella contemporanea. Alcuni artisti del Mansudae sono venuti in Italia e li ho portati nei musei. Quando arrivano nella sezione di arte contemporanea si mettono a ridere come matti, per loro quella non è arte“. Del resto non hanno molta scelta, come si legge sul sito di Mansudae è stato lo stesso Kim Jong ll, il “Presidente Eterno”, padre dell’attuale leader a dire chiaro e tondo e in modo irrevocabile che se di una pittura non si capisce subito il significato, non è una buona pittura.

Gang Hye Yong, Hong Sun Dok, fiore Busang. Ricamo


Un settore in grande crescita è quello dei ricami di solito di soggetto floreale, di cui alcuni esposti a Deodato arte. “L’anno scorso un enorme ricamo con la mappa del mondo realizzato per Luciano Benetton è stato esposto alla Fondazione Cini con grande successo” dice Cecioni. Acquistabili anche su internet sono i poster dipinti a mano che restituiscono un’immagine oleografica e in technicolor della società norcoreana in tutti i suoi aspetti, dalla propaganda anti Usa all’esaltazione dello sport, alle professioni che fanno grande la nazione. Le quotazioni delle opere variano tra i 2000 e i 4000 euro, fatta eccezione per alcuni artisti rinomatissimi, su cui però Cecioni non si sbilancia: “E’ difficile fare una valutazione di queste opere. In Cina sono valutate molto di più, ma in Occidente è un mercato nuovo, quindi siamo partiti più bassi”.



L’utopia realizzata rappresentata dagli artisti nordcoreani stride un po’ con ciò che trapela sulle condizioni di vita del paese, a cominciare dalla situazione di endemica carenza alimentare. Del resto il legame privilegiato con l’Italia si fonda non solo sui buoni auspici di Dini e più recentemente di Salvini e di Razzi, al quale piace paragonare la Corea del Nord alla Svizzera, ma anche sulla fame: “L’ambasciata a Roma della Corea del Nord è la più bella del mondo – dice Cecioni che la frequenta spesso – Per una ragione molto semplice, Roma per Pyongyang è importantissima perché è la sede della Fao e del programma alimentare da cui in parte dipende il Paese”.

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Pubblicato su Cultweek il 14 maggio 2016