Come fai se sei un paese dell’asse del male a far entrare valuta
pregiata aggirando sanzioni ed embargo? Parlando di Corea del Nord è fatale
pensare a traffici di armi, la principale, se non l’unica, industria fiorente
del Paese. Anche nella versione moderata e in gessato mostrata nei giorni
scorsi al primo congresso del partito dopo 36 anni dal giovane leader Kim Jong
Un, detto il Gran Sole della nazione, si capisce che il cuore batte sempre
forte per l’atomica e l’industria degli armamenti.
Meno ovvio immaginare che tra le risorse insospettabili, e
legali, di questa nazione misteriosa, sempre in bilico tra farsa e tragedia,
c’è anche la produzione artistica, che costituisce una delle voci dell’export
nordcoreano. L’opera d’arte nell‘epoca della riproducibilità tecnica, diceva
Walter Benjamin nel 1936 alludendo all’evoluzione dell’esperienza estetica
nell’intreccio tra arte, tecnica, potere e controllo delle masse. Chissà cosa
avrebbe pensato e scritto se avesse potuto visitarne una plastica e didascalica
rappresentazione nella gigantesca fabbrica dell’arte di Mansudae, si dice la
più grande del mondo, nel cuore di Pyongyang: 120 mila metri quadri, con 4000
addetti di cui un migliaio artisti, selezionati duramente nelle accademie e
università locali. Una megastruttura all’interno della quale si trovano
fonderie, cartiere, laboratori, gallerie, un museo, anche campi di calcio per
la ricreazione.
Il Mansudae art studio nasce nel 1959 per glorificare attraverso pittura e
soprattutto sculture monumentali extra large il Caro leader Kim Il Sung e i
suoi discendenti, con una vocazione esclusiva di arte pubblica. Anche perché,
ovviamente, in Corea del Nord non esiste un mercato privato, nemmeno dell’arte.
Dalle fucine dello stabilimento sono usciti i ritratti colossali dei padri
della patria che dominano la vita del nordcoreano ad ogni angolo di strada. Ma
nel 1970 la Mansudae prende un’altra piega, si apre al mercato estero e come
Mansudae Overseas Projects diventa un marchio export, soprattutto dell’arte
monumentale, per la quale garantisce competenza tecnica, manodopera qualificata
a basso costo e quel gusto dell’enfasi che piace ad un certo tipo di
committenza, di solito i dittatori.
Il Rinascimento Africano a Dakar |
Sono soprattutto i paesi africani, ma non solo, a ricercare le
monumentali statue che non temono l’iperbole. Polemiche roventi si è guadagnata
nel 2010 la ciclopica scultura realizzata su una collina che domina Dakar, in
Senegal. Titolo, il Rinascimento Africano, un gruppo bronzeo di 49 metri
accolto da proteste anche di piazza per la sua bruttezza, le fattezze poco
africane e troppo coreane dei personaggi, gli abiti scandalosamente succinti in
un paese musulmano e i costi iperbolici: 27 milioni di dollari pagati in acri
di terra ceduti a Pyongyang. Questa sezione estera del Mansudae avrebbe
fruttato al governo norcoreano, secondo stime del Daily NK giornale
sudcoreano dedito a svelare i misteri del Nord, solo nella prima decade del
duemila ben 160 milioni di dollari. Di tutto questo ben di dio non un dollaro
ovviamente è finito agli artisti e alle maestranze del Mansudae, che sono
semplici lavoratori salariati come tutti i loro connazionali.
Accanto al dipartimento di scultura si è sviluppato un mercato
di prodotti più smerciabili anche per gli acquirenti privati overseas: si
tratta soprattutto di oli, opere grafiche, xilografie, raffinate chine su
carta, ricami e poster. Il mercato in passato è stato soprattutto quello
cinese, ma dal 2005 è diventato referente per l’Occidente il fiorentino Pier
Luigi Cecioni, arrivato a Pyongyang quasi per caso al seguito di un’orchestra
toscana di cui allora era presidente e che ha già realizzato in Italia diverse
mostre, la prima a Genova nel 2007, inaugurata da Dini, che come ministro degli
esteri aveva riaperto il dialogo con i nordcoreani. Alla galleria Deodato arte Milano in
questi giorni fino al 31 maggio è possibile vedere una scelta di opere curata
dallo stesso Cecioni. Piacerà sicuramente ai cultori del genere un olio che
celebra la storica vittoria della Corea del Nord sull’Italia di Fabbri (
foto di apertura) ai Mondiali del 1966 in Inghilterra, una sorta di istantanea
del momento del gol del tipografo Pak Doo ik che beffa un imprecisato difensore
azzurro, nel quadro per la verità dai tratti marcatamente asiatici. Di Pak Doo
ik e di altri giocatori della celebre impresa ci sono anche vari ritratti in
giacca e cravatta. Ma le tecniche di cui gli artisti di Madsudae sono maestri
sono quelle più tradizionali, la china su carta che ora chiamano Korean
painting e la xilografia.
Tak Hyo Yon, Coppa del mondo 1966 |
La realtà rappresentata non tollera tristezze, secondo gli
stilemi classici del realismo socialista d’antan, in una sorta di congelamento
temporale che ben esprime l’isolamento in cui vive il Paese: lavoratori
sorridenti dagli sguardi fieri, famiglie ilari e paffute che fanno allegri pic
nic, al massimo è ammessa la malinconia della natura. In generale i soggetti
sono celebrazioni del lavoro, delle imprese militari e dell’“allegra“ vita
quotidiana, ma nella mostra milanese largo spazio è dato ai paesaggi, alle
nature morte e alle opere calligrafiche, che ricalcano emi propri
dell’iconografia tradizionale pre-regime. Con varie specializzazioni: c’è il
maestro delle tigri, il maestro delle onde che realizza solo marine, il maestro
delle montagne.
Gang Hyon Chol, Lago Chol. |
“Non esiste arte che non sia figurativa –spiega Cecioni – non fa
parte della loro formazione l’astrazione. Gli artisti coreani conoscono l’arte
classica, ma ignorano quella contemporanea. Alcuni artisti del Mansudae sono
venuti in Italia e li ho portati nei musei. Quando arrivano nella sezione di
arte contemporanea si mettono a ridere come matti, per loro quella non è arte“.
Del resto non hanno molta scelta, come si legge sul sito di Mansudae è stato lo
stesso Kim Jong ll, il “Presidente Eterno”, padre dell’attuale leader a dire
chiaro e tondo e in modo irrevocabile che se di una pittura non si capisce
subito il significato, non è una buona pittura.
Gang Hye Yong, Hong Sun Dok, fiore Busang. Ricamo |
Un settore in grande crescita è quello dei ricami di
solito di soggetto floreale, di cui alcuni esposti a Deodato arte. “L’anno
scorso un enorme ricamo con la mappa del mondo realizzato per Luciano Benetton
è stato esposto alla Fondazione Cini con grande successo” dice Cecioni.
Acquistabili anche su internet sono i poster dipinti a mano che restituiscono
un’immagine oleografica e in technicolor della società norcoreana in tutti i
suoi aspetti, dalla propaganda anti Usa all’esaltazione dello sport, alle
professioni che fanno grande la nazione. Le quotazioni delle opere variano tra
i 2000 e i 4000 euro, fatta eccezione per alcuni artisti rinomatissimi, su cui
però Cecioni non si sbilancia: “E’ difficile fare una valutazione di queste
opere. In Cina sono valutate molto di più, ma in Occidente è un mercato nuovo,
quindi siamo partiti più bassi”.
L’utopia realizzata rappresentata dagli artisti nordcoreani
stride un po’ con ciò che trapela sulle condizioni di vita del paese, a
cominciare dalla situazione di endemica carenza alimentare. Del resto il legame
privilegiato con l’Italia si fonda non solo sui buoni auspici di Dini e più
recentemente di Salvini e di Razzi, al quale piace paragonare la Corea del Nord
alla Svizzera, ma anche sulla fame: “L’ambasciata a Roma della Corea del Nord è
la più bella del mondo – dice Cecioni che la frequenta spesso – Per una ragione
molto semplice, Roma per Pyongyang è importantissima perché è la sede della Fao
e del programma alimentare da cui in parte dipende il Paese”.
©Riproduzione riservata
Pubblicato su Cultweek il 14 maggio 2016