sabato 20 dicembre 2014

Piazza Fontana e la famiglia Dendena, la memoria che si tramanda

Matteo Dendena il 12 dicembre 2014
Il 12 dicembre 2014, un sabato, sono andata alla commemorazione della strage di Piazza Fontana, tante teste grigie e bianche a ricordare quei morti e quei feriti di 45 anni fa rimasti senza colpevoli. Tra i pochi giovani presenti uno ha parlato sul palco: è Matteo Dendena, nipote di Pietro Dendena, una delle vittime della strage, figlio di Paolo, attuale vicepresidente dell'associazione delle vittime, e nipote di Francesca, scomparsa nel 2010. Su di lei Matteo ha scritto un libro, Ora che ricordo ancora, dedicato al racconto della vita di questa donna caparbia, per molti anni presidente dell'associazione delle vittime della strage di Piazza Fontana, impegnata in una lotta quotidiana per tenere viva la memoria e soprattutto la richiesta di giustizia che come capita troppo spesso in Italia non è mai arrivata. Interpellai Francesca Dendena in occasione della sentenza della corte d'appello che il 12 marzo 2004 mandava assolti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni.  Francesca Dendena scrisse per il mio giornale, Metro, un pezzo molto asciutto e fermo su quella sentenza che azzerava anni di inchieste e di sentenze. Tutta la famiglia Dendena, mi pare, mostra quella capacità di affrontare tragedie e soprattutto ingiustizie immani senza alzare la voce, senza perdere la calma, mettendosi sulle spalle con naturalezza un compito difficile ma necessario, quello della testimonianza civile e della memoria, che da individuale diventa necessariamente collettiva, nostra. Sono un bell'esempio di italiani, teniamoceli stretti.  Ho ritrovato quel pezzo di Francesca Dendena, più lungo di quello che uscì poi sul giornale, per ragioni di spazio,  nell'archivio della mia posta, lo pubblico di seguito.






mercoledì 17 dicembre 2014

Non sprechiamo le competenze dei manager di Mafia Capitale


Leggendo le vicende di Mafia Capitale, mi ha colpito l'iperattivismo dei “manager" del crimine Massimo Carminati e Massimo Buzzi, impegnatissimi e abilissimi nello sfruttare ogni smagliatura del sistema per aumentare il loro fatturato. Una competenza utilissima da utilizzare per mettere a punto delle contromisure alla corruzione. 
Di seguito un mio pezzo uscito su Metro il 14 dicembre 2014



lunedì 15 dicembre 2014

Contro la corruzione meno pene e più scuola

Il mondo salvato dai ragazzini è il titolo di una raccolta di poesie e scritti di Elsa Morante, un titolo evocativo che immediatamente ci spinge a volgere lo sguardo verso il futuro, con un minimo di slancio  e baldanza. Anche in tempi bui, anzi grigi, come questi. La scommessa più grande: non tanto punire i cattivi ma educare alla legalità la classe dirigente del futuro.
   
Quello che segue è un articolo pubblicato su Metro  il 10 dicembre 2014

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lunedì 8 dicembre 2014

Il Califfato tra barbarie e modernità

Improvvisamente ai confini dell'Europa abbiamo scoperto la minaccia terrificante dell'Isis, qualcosa che non solo i meno avveduti di noi non avevano mai sentito nominare, il male assoluto alle porte di casa. In realtà, naturalmente, le cose non stavano così. Come spiega bene l'economista ed esperta di terrorismo internazionale Loretta Napoleoni nel suo ultimo libro, (Isis. Lo Stato del terrore, Feltrinelli, pagine 144, euro 13), l'Isis rappresenta l'ennesimo esempio della serpe coltivata in seno, del gruppo terrorista foraggiato in questo caso probabilmente dai paesi del Golfo, Arabia Saudita e Kuwait, nel caos della guerra civile siriana e poi sfuggito di mano. La tesi di Napoleoni però va oltre e ci invita a guardare l'Isis da un punto di vista diverso. Nel cuore della sua “modernità”.  



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Pubblicato su Metro  il 24 novembre 2014

venerdì 7 novembre 2014

A Madia le molestie a mezzo stampa

Inizio questo post con un errata corrige: nel testo pubblicato su Metro mi è sfuggito un grave errore di grammatica, alla quinta riga la versione corretta è “la ministra Madia”. Ovviamente. 

Calippo sì. Gelato no? Verte tutta attorno a questo stringente interrogativo la querelle sul politically correct lanciata dal direttore di Chi Alfonso Signorini in risposta alle palate di indignazione (oltre ad un procedimento disciplinare dell’ordine dei giornalisti) per le due pagine dedicate dal suo giornale ad alcune foto rubate del ministro Madia mentre mangia un cono gelato in macchina, con il titolone: “Ci sa fare col gelato”.  Fine. Tragicamente inchiodato all’unico doppio senso possibile.
Signorini è sottile, fa finta di non buttarla in politica e si limita a demolire la Madia semplicemente perchè donna. Nell' uso talvolta disinvolto delle quote rose a destra o a sinistra, poi alla fine, quando si vuole colpire duro, si finisce sempre per colpire sulla pelle della quota rosa medesima, ridimensionata a pura femmina, quindi zero nella graduatoria del bullo. E per quanto sottilizzi e mi sforzi, giuro, di sintonizzarmi sull’allegro cazzeggio del trash, non riesco a trovare nessun argomento contrario alle ovvie accuse di sessismo e volgarità, di peso e misura uguali alle battutacce che ognuna di noi si becca nella sua vita semplicemente camminando per strada, come ha ben documentato il video virale di Hollaback, in cui si vede una ragazza molestata 108  volte in dieci ore mentre passeggia per New York.

Commenti volgari, doppi sensi fuori contesto fino alle pacche sul culo, sono cose a cui tutte noi siamo abituate, il brodo di “cultura” sessista nel quale abbiamo sguazzato e ci siamo dovute fare largo. Il fatto che queste cose capitino tutti i giorni non le derubrica dalla categoria di “molestia”, men che meno oggi che pure il legislatore ha cercato di metterci una pezza. A mezzo stampa poi la molestia è più grave.
E la storia di Francesca Pascale che lecca il calippo a teleCafone immortalata in una foto su Oggi, che secondo Signorini sarebbe la stessa cosa, in effetti non lo è perché la Pascale si è messa in posa e si è pure divertita. Il moralismo non c’entra nulla e nemmeno il buon gusto. Ma la deontologia sì, parola vecchia ma ancora socialmente utile e non rottamata. Il mondo è cambiato e il sessismo come formidabile arma di distruzione di credibilità delle donne va messo definitivamente al bando, come le bombe a grappolo.
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Pubblicato su Metro il 6 novembre 2014

mercoledì 8 ottobre 2014

L'Opera di Roma nell'era della Grande Rottamazione


Al giorno d’oggi conta il marketing,  se non godi di buona stampa, di una good reputation, sei fregato. E certo su questo piano se la sono proprio giocata male vecchi armamentari anni '70 come gli ipersindacalizzati cori e orchestre dei nostri disastrati enti lirici, facilmente predestinati a cadere sotto la  scure della Grande Rottamazione. Come dimenticare la protervia dell’indennità spadone richiesta dal corista per indossare in scena una spada realisticamente pesante, o l’indennità trasferta da Roma a Caracalla?  E l’indennità lingua per cantare  in russo? La verità è che nella vicenda dell’Opera di Roma, con il quasi licenziamento in tronco delle maestranze artistiche, queste hanno plasticamente fatto la parte del vaso di coccio in un gioco più grande di loro.  Perché è vero che gli enti lirici sono alla canna del gas e l’Opera di Roma di più, ed è vero che da decenni si tenta in modi più o meno occulti e finora inefficienti di privatizzarli, ma l’accelerazione di questi giorni segna un prima e un dopo. Stiamo assistendo ad un cambio di paradigma: ciò che prima era impensabile ora lo è, si può avere un teatro senza coro e orchestra in pianta stabile, si può licenziare in tronco una compagine artistica e nessuno di quelli che una volta avrebbero alzato barricate dice niente, imbambolati come siamo tutti da una crisi infinita e terrorizzante.


Non era un passo obbligato: qualcuno dovrà spiegare perché ha vinto la strada della rottura, allestita dal tempestivo abbandono di Muti, quando solo una minoranza di coristi e professori d’orchestra contestava un accordo possibile. Minoranza che ha fatto il gioco di un progetto più ampio, del resto espresso senza reticenze dal Ministro Franceschini, ossia avere in tutti i teatri maestranze artistiche a contratto. Col doppio vantaggio di diminuire costi e conflittualità, oggi così fuori moda. È un bene, un male? Forse è persino un bene l’obiettivo, prestigiose orchestre a contratto ci sono in tutto il mondo.  Ma certamente un male è la strada per ottenerlo. Come nella estenuata discussione su articolo 18, jobs act e annessi, anche in questa vicenda emerge che il peso e in fondo la “colpa” della grande crisi e delle singole crisi, ricadono sulla funzione lavoro. Nel caso dell’Opera di Roma poi nemmeno su tutta, perché mica si sono licenziati gli amministrativi, i quadri, mica si è chiesto conto a dirigenti e soprintendenti vecchi e nuovi,  probabilmente politicamente meglio introdotti, che certo qualche corresponsabilità nel buco di 30 milioni ce l’hanno. Che il lavoro come lo abbiamo conosciuto finora sia l’anello della catena destinato a saltare per farci stare poi tutti meno tutelati ma più contenti è il grande totem ideologico brandito con formidabile pervicacia dal Renzismo.  Speriamo che sia vero.
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Pubblicato su Metro il 7 ottobre 2014


giovedì 2 ottobre 2014

Si crea lavoro investendo in formazione


«In un anno in Germania in media ogni lavoratore fa 24 ore di formazione lavoro, in Italia un'ora e mezzo. Meglio di noi fanno tutti gli altri Paesi europei, salvo il Portogallo. Ecco qual è la vera differenza di sistema. Non l’articolo 18». Detto da Carlo Barberis, organizzatore di ExpoTraining, (www.expotraining.it), la fiera della formazione aziendale e professionale (settore che fattura 3 miliardi) che inizia oggi a Milano, può sembrare scontato e di parte. Ma Barberis assicura che non è così: «Cambiare l’articolo 18 appartiene ad un vecchio modo di pensare, ad un vecchio paradigma».


E quale sarebbe invece il nuovo paradigma da applicare in tema di lavoro? 
Cito l’Ocse che ha introdotto il concetto di capitale umano nel calcolo della ricchezza di un paese. Capitale umano vuol dire conoscenza, competenza, abilità: un anno in più di formazione si traduce in un 5% in più di pil.  

Noi invece siamo indietro.
Indietrissimo. Solo il 18% delle aziende fa formazione ed è un male perchè è dimostrato che quelle che vanno meglio sono proprio le aziende che aumentano le competenze dei loro dipendenti. Tra l'altro per lo più a costo zero: su 3 miliardi 2 e mezzo vengono dal pubblico. Dico di più: dovrebbero pagare di più di Irpef le aziende che non fanno formazione continua perchè creano un danno sociale. 

Quindi c’è un deficit della classe imprenditoriale. 
Assolutamente sì.

E i lavoratori?
Soffro quando i lavoratori cercano di mantenere in piedi aziende bollite. Devono puntare a formarsi nuove competenze. 

 Lei però parla a nome della categoria dei formatori, che non è esente da critiche. Ci sono dei bei carrozzoni.
È vero: siamo noi i primi a chiedere di normare meglio il settore, dare patentini con criteri certi .

Vede nel governo più sensibilità al problema?
A parole sì. La realtà è che ad ora il raccordo tra scuola, lavoro e formazione è inesistente. In Germania con la riforma del 2003 hanno introdotto anche una pianificazione territoriale: è inutile formare odontotecnici se in quella provincia richiedono saldatori. E che le parole non bastino lo si vede da come sta andando Garanzia giovani, che doveva connettere giovani non occupati e lavoro. Siamo alla fine del 2014 ed è tutto fermo, per la farraginosità della burocrazia. Rischiamo che il miliardo e mezzo stanziato per l’operazione torni a Bruxelles.
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pubblicato su Metro il 1 ottobre 2014

mercoledì 1 ottobre 2014

“Cogestire è meglio che licenziare”

Lo stabilimento della Volkswagen di Wolsburg
«Eliminare l'articolo 18 in Italia non porterà un posto di lavoro in più». Ne è sicuro Franco Garippo, da 38 anni nel consiglio di fabbrica della  Volkswagen di Wolfsburg, membro del fortissimo sindacato dei metalmeccanici  IG Metall e paladino di quel “modello tedesco” che tanti da noi  invocano come punto di riferimento di ogni moderna riforma del lavoro. Lo rintracciamo alla fine dell'assemblea generale, una delle 4 annuali, in cui il mondo Volkswagen si ferma, tutti i dipendenti, dai quadri agli operai si riuniscono e invitano il direttore generale a fare il punto sullo stato dell'azienda.

Oggi da Wolfsburg non è uscita nemmeno una Volskwagen.
Nemmeno una. È un appuntamento obbligatorio, che rientra in quel modello di cogestione che esiste in Germania dal 1976 e che in Italia non capite.

Ce lo spieghi lei: per esempio in Germania è più facile o più difficile licenziare?
Esistono tutele specifiche per le aziende con più di 10 dipendenti, ma il punto è un altro: la legge stabilisce che in ogni azienda al di sopra dei 5 dipendenti ci sia un consiglio aziendale eletto dai lavoratori che deve essere consultato per qualsiasi tipo di licenziamento, anche se uno ruba, così come in qualunque altra decisione, dalle assunzioni, ai turni, alla produzione. Se non succede si fa ricorso al giudice. Ma in 38 anni alla Volkswagen non è mai successo. La cogestione è tutto, non a caso qui non c'è stato mai uno sciopero, nemmeno quando abbiamo trattato 30 mila esuberi nel 1993. Poi evitati tagliando orari e stipendi. 

L'idea è che mentre i sindacati italiani difendono sempre il lavoratore a prescindere, voi siete più forti ma più  “cattivi”. Le è mai capitato di avallare un licenziamento? 
È il punto cruciale su cui i sindacati italiani non mi capiscono. Se io come sindacato devo codecidere vuol dire che tutelo il lavoratore ma anche l'azienda. La produttività, l'etica aziendale, è un obiettivo comune. A me interessa che l'azienda vada bene, come si dice qui “non si ammazza la mucca che si vuole mungere”. Quindi devo tutelare Garippo se l'azienda lo vuole licenziare ingiustamente, ma se Garippo è un lavativo no. 

La cogestione nel caso Volkswagen significa anche partecipazione ai consigli di sorveglianza dell'azienda, condivisione degli utili e stipendi di lusso. Ci faccia sognare.
Per un turnista il netto in busta parte da 2600 euro. Poi c'è il bonus. Abbiamo contrattato che il 10% degli utili vada ai dipendenti: l'anno scorso è stato 7500 euro in media a testa, quest'anno un po' meno. Questo deve fare il sindacato: contrattare migliori condizioni di lavoro, non fare politica o altro. 

Tutto rose e fiori quindi?
La Germania non è il paradiso in terra e non tutte le aziende sono esemplari come la Volkswagen. La riforma delle pensioni è stata durissima e infatti ora è stata corretta. Ma vengo in Italia tutti gli anni in vacanza e vedo tante occasioni sprecate, come la formazione professionale. Dalle mie parti, nel salernitano, il 50% dei giovani o è disoccupato o colleziona lauree. E sempre di più passano di qui: 300 nell'ultimo anno. In catena abbiamo anche un architetto con master. Ma le pare?

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Articolo pubblicato su Metro il 25 novembre 2014