martedì 30 giugno 2015

Placide Ntole nel Sud Kivu dà un'identità ai figli degli stupri

Ho incontrato Placide Ntole in un pomeriggio bollente nella biblioteca di Cassano d'Adda, dove si faceva intervistare dai ragazzini della locale scuola media. Organizzatore dell'evento Michele Februo, che da anni cura corsi di giornalismo nelle scuole ma soprattutto corsi di formazione giornalistica in un posto scomodo e pericoloso come l'università di Bukavu, nella regione del sud Kivu della Repubblica Democratica del Congo, campo di battaglia di milizie rivali, dove fare il giornalista è un mestiere che accorcia la vita. 




Placide Ntole
 “Hai paura di fare il tuo lavoro?”. “Sì certo, ho visto morire molti colleghi e amici e so che prima o poi potrebbe venire anche il mio turno”. La domanda la formula un’allieva delle medie di Cassano d’Adda, in provincia di Milano. A rispondere è un ragazzo di 28 anni, Placide Ntole, giornalista, danzatore acrobatico, attore, ma ora soprattutto avvocato specializzato nella difesa dei diritti dei bambini nati dagli stupri di massa nel Sud Kivu, regione orientale della Repubblica democratica del Congo, da anni luogo di scorribande delle milizie ribelli sconfinate dal Ruanda, Burundi e Uganda, in una guerriglia senza fine lascito della guerra che ha dilaniato l’area fin dagli anni ’90. Minacciato di morte, da alcuni mesi Placide Ntole è rifugiato all’Aja, ma il 27 luglio tornerà a Bukavu, capitale del Sud Kivu, nonostante i rischi. Di passaggio a Milano, nei suoi incontri racconta il calvario di una popolazione sotto  la minaccia costante delle bande ribelli, ridotta alla fame pur vivendo letteralmente su giacimenti di diamanti, cobalto, oro, coltan, sfruttati illegalmente dalle milizie. Un popolo straziato dalla piaga degli stupri di massa e dei bambini soldato: «Dall’inizio dell’anno nella regione sono già state uccise 450 persone e in questo momento nell’ospedale Panzi di Bukavu, gestito dal dottor Denis Mukwege (vincitore del premio Sakarov ndr) che cura le vittime di stupro, sono ospitate almeno 500 donne. Lo so perché sono appena andato a trovare un' operatrice dei diritti umani che è stata a sua volta stuprata a causa del suo lavoro».
Chi sono gli stupratori?

Prima erano soprattutto le milizie ribelli straniere, ora anche i gruppi armati congolesi che esercitano violenza sui congolesi. Lo stupro è un’arma non convenzionale che serve a terrorizzare la popolazione.
In cosa consiste il suo lavoro?
Lavoro per l’organizzazione SOS Information Juridique Multisectorielle e ci occupiamo della tutela legale gratuita di tre categorie vulnerabili: le donne vittime di stupro, i difensori dei diritti civili, in senso ampio, anche giornalisti, operatori umanitari, e i bambini nati dagli stupri e non registrati.

Sono molti i bambini in questa situazione?

È impossibile dare numeri, sono migliaia, sono bambini senza diritti e identità perché le loro madri hanno solo tre mesi per registrarli all’anagrafe, dopo di che per poterlo fare devono intraprendere un iter giudiziario molto costoso. Molte donne non sanno quello che devono fare, o si vergognano, perché la comunità le stigmatizza nonostante siano loro stesse vittime, quindi sono vittime due volte. I loro bambini sono fantasmi: non possono andare a scuola, non hanno assistenza sanitaria, non possono uscire dal paese. Noi finora siamo riusciti a dare una carta di identità e una nazionalità a 200 di questi bambini. Ma stiamo anche facendo un’azione di lobbyng assieme a molte altre organizzazioni perché sia varata una legge che consenta una registrazione collettiva di questi bambini, sanando questa tragica violazione dei diritti.
Il governo vi aiuta o vi ostacola?
Il governo congolese non è abbastanza forte e la comunità internazionale si disinteressa completamente delle violazioni continue dei diritti umani nella Repubblica Democratica del Congo. Anche l’Unione Africana è debole.

Lei è sua volta  vittima.
Noi ci occupiamo di tutelare e istruire gli operatori umanitari che sono in pericolo e quando è necessario li trasferiamo. La stessa cosa è capitata a me: mi ha telefonato un capo dei ribelli dopo che avevo visitato una certa zona e mi ha detto che se fossi tornato mi avrebbe ucciso, sono andato a denunciare il fatto all’esercito regolare, e dopo il capo delle milizie mi ha richiamato, sapeva tutto. Meglio cambiare aria per un po’.

©Riproduzione riservata

Pubblicato su Metro il 15 giugno 2015

La cattiva strada di Sofia Gubajdulina

Sofia Gubajdulina al Museo del Novecento
Quando ho incontrato Sofia Gubajdulina nell’89 nel suo minuscolo  appartamento in un palazzo dell’Unione Compositori alla periferia di Mosca, usciva da anni difficili, in cui era stata “indesiderata”, come diceva lei, isolata dall’establishment culturale sovietico  per la radicalità della sua musica, intrisa di religiosità, giudicata “irresponsabile”.
Con la Perestroika le si erano spalancate molte porte e guardava fiduciosa al futuro dell’Urss e della sua carriera. Ventisei anni dopo, in un mondo distante anni luce, di passaggio  a Milano per un evento organizzato da Divertimento Ensemble, che ha eseguito al Museo del Novecento i suoi De profundis (1978) e Dieci preludi (1974), questa ragazza tartara di 84 anni guarda al futuro con lo stesso sguardo fiducioso. Come vede la Russia di oggi? «Come un malato, che però sta andando verso la guarigione, vedo molti segnali incoraggianti, molta vivacità». 
Indiscussa star della musica contemporanea, Gubajdulina ha mantenuto dritta la barra della sua ricerca musicale refrattaria alle mode e ad ogni ortodossia, capace di tenere insieme gli strumenti della tradizione russa come il bayan e le strutture numerologiche della serie di Fibonacci e della sezione aurea. 
Mai a nessuno è venuto in mente di considerarla quota rosa: Gubajdulina è musicista senza declinazioni, circondata dall’aura dell’artista libera e indomabile, che si è fatta le ossa nei tempi bui della censura sovietica vivendo di colonne sonore e componendo per sé, accanto a compagni di strada e di sventura come Denisov e Schnittke, per poi diventare una dei compositori più celebrati nel mondo.
La passeggiata
Di solito schiva, si è lasciata andare anche a ricordi personali  chiacchierando allo spazio Fazioli con il compositore Gabriele Manca. Dal ’92 vive sola nella campagna vicina ad Amburgo: «Sarebbe molto difficile per me scrivere in una città. Camminare in un bosco mi è necessario per pensare la musica, per lasciare spazio all’intuizione». 
Sofia Gubajdulina all'incontro con il compositore
Gabriele Manca allo spazio Fazioli

La natura è centrale anche in un episodio cruciale della sua vita, quando durante una passeggiata, alla fine degli anni ’60, il compositore estone Arvo Pärt, in crisi creativa le chiese quale fosse il senso del comporre: «Gli risposi che il compositore deve alzarsi alle 6 del mattino, invece di mettersi subito a tavolino deve andare a passeggio nel bosco, camminare a lungo, quindi tornare, senza dimenticarsi di andare a prendere il pane. Dopo questo dialogo Pärt è andato a vivere in campagna, per 8 anni non ha più scritto ma poi ha ricominciato componendo una musica  nuova». Insomma concretezza e pragmatismo per ripartire da quello che lei chiama la sostanza del suono.
L’arte salverà il mondo
Sul ruolo dell’arte e della musica Gubajdulina, al contrario di tanti suoi colleghi più smarriti, non ha timidezze né  incertezze: «Perché scriviamo musica? Per salvare il mondo. L’umanità vive una situazione molto drammatica. Il progresso, la tecnologia, mettono l’intelletto al di sopra l’inconscio, lo spirito si è impoverito, soffocato dalla tecnica. Solo l’arte può ridare la forza allo spirito». 
Per lei ogni opera ripristina l’integrità perduta della vita,  il legato appunto, nel senso di re-ligio, unire e legare il molteplice in un’unità.  Tutta la musica quindi è religiosa, anche se non in un senso strettamente confessionale: «Per me non esiste altra giustificazione alla creatività».
La croce

Una visione che ha una traduzione immediata nella partitura:  «Tutte le mie composizioni sono variazioni sul simbolo della croce: ci sono sempre due elementi contrapposti  che poi ritrovano un punto di sintesi, una catarsi, nell’intersezione». Una predilezione per i contrasti  che si ritrova anche in molti suoi titoli – Vivente – non vivente, Rumore e silenzio, Hell und dunkel (Chiaro e scuro), Stimmen…Verstummen (Voci …ammutolite), Pro et Contra – e che continua a ispirare questa artista irriducibile, a cui Šostakovič augurò di continuare sulla sua “cattiva strada”: «Anche il brano che sto scrivendo ora per la Staatskappelle di Dresda celebra un’opposizione e si intitola Dell’amore e dell’odio.

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Pubblicato su Cultweek il 30 giugno 2015



L'articolo sull'Unità seguito al mio incontro a Mosca con Sofia Gubajdulina nell'ottobre del 1989