Foto segnaletica del 1942, archivio centrale di Stato, casellario polizia politica |
A volte dici le coincidenze: nel 2006 ho ricevuto in eredità un
quadro di un certo Giandante X, mai sentito nominare prima: un paesaggio
montano lugubre e visionario. Dopo qualche ricerca in rete ho scoperto
inaspettati collegamenti: uno dei suoi più grandi sostenitori era stato Dino
Formaggio, partito operaio e diventato artista e soprattutto meraviglioso
filosofo, allievo di Banfi, professore di estetica, il mio professore,
quello con cui mi sono laureata. Giandante X poi si era occupato per decenni di
grafica e propaganda, producendo intensamente per l’Unità, dal ‘25 al
‘27. Giornale dove, in altra era geologica, ho lavorato per molti anni. Come potevo
non averlo mai sentito nominare? Potevo, io come tantissimi altri.
Gran parte di questa ignoranza
dipende dalla vita borderline e dal carattere decisamente ostico di Giandante,
a cui proprio in questi giorni, in occasione del 70esimo della Liberazione
sia l’Anpi che la Fondazione Corrente dedicano due personali,
incentrate soprattutto sulla sua attività di artista militante e “resistente”. Perché
Giandante X, prima ancora che pittore, scultore, architetto, grafico, poeta e
filosofo, è stato metà anarchico e metà comunista, ma soprattutto un
antifascista, un guerrigliero che non aveva difficoltà a mettere mano alla
pistola quando necessario, attitudine per la quale ha pagato un prezzo
durissimo frequentando le galere di mezza Europa. In un altro momento sarebbe
stato forse un bohemienne, un hippy, ma essendo nato nell’anno 1900, con di
mezzo il fascismo e la guerra, le cose per lui andarono in un altro modo.
A ricostruire parte del mistero di
questo personaggio inclassificabile della scena artistica milanese ha
contribuito recentemente un romanzo-saggio, Giandante X,
di Roberto Farina pubblicato da Milieu. Ma mettere assieme tutti i tasselli è
un impresa tuttora difficile. Partiamo da quella X. Al secolo il suo nome era Dante
Pescò, milanese di famiglia benestante, suo padre aveva una fabbrica
tessile e non amava particolarmente l’arte. A 16 anni Dante scappa da
quell’ambiente piccolo e soffocante per dedicarsi alle sue passioni, l’arte e
la politica, vivendo con pochissimi mezzi.
Basta guardarlo negli occhi nei pochi
ritratti per leggervi un destino: magro, sguardo febbrile e duro, che
spaventa un po’ le donne, che nella sua vita vanno e vengono, ma resistono
poco. Da ragazzo povero per scelta si veste sempre con un maglione, pastrano
militare e scarponi chiodati comprati per pochi soldi. Il nome d’arte è una
sintesi delle sue scelte di vita: Giandante è una variazione di Viandante,
la X cancella il suo cognome, la sua origine borghese.
Giovanissimo produce tantissime opere, sperimenta tutti gli
stili sempre in senso figurativo: dalle sculture di cemento alle pitture, dalla
grafica alla ceramica, partecipa ad importanti mostre, viene spesso premiato, a
20 anni è il più giovane architetto italiano, gli offrono persino una cattedra,
ma lui rifiuta, refrattario ai vincoli. Rifiuta per lo stesso motivo di entrare
nella commissione urbanistica di Milano. Insomma ha successo, non è affatto un
emarginato, è l’originale del gruppo e frequenta Sironi, Carrà, Sassu, Manzù,
si avvicina alla movimento di Corrente.
Se mai si autoemargina: la sua idea dell’arte è totale: “Un
quadro in ogni casa” è il suo motto, e la sua idiosincrasia per il mercato
dell’arte è assoluta: quando secondo lui le gallerie vendono a prezzi troppo
alti le sue opere lui si piazza all’ingresso e offre i suoi lavori a metà
prezzo o anche meno, a volte le regala. Ha una produzione impressionante,
inflaziona il mercato. È chiaro che non goda di buona reputazione nel mondo dei
galleristi.
L’arte e l’antifascismo sono i due
poli della sua vita, in una sorta di specchio del
futurismo a cui si era avvicinato agli inizi salvo scapparne quando Marinetti e
i suoi avevano sposato la causa fascista. Il suo antifascismo non è solo
ideologia, è fatto di azioni e armi ben oliate: collabora attivamente alla
formazione combattente degli arditi del popolo, un gruppo clandestino che cerca
di contrastate con azioni militari le squadracce fasciste.
Nel ’22 gli arditi vengono sciolti e
allora lui stesso, artista con la pistola, fonda le Cappe nere, gruppo
“di pensiero azione e forma” che si addestra in un sotterraneo in piazza Duomo.
Quando il padre muore, rinuncia all’eredità ma gli arrivano comunque ventimila
lire che spende in due giorni: regala duemila lire all’amico Leonida Repaci e
il resto se ne va in libri e rivoltelle. Ma qualcuno delle Cappe lo tradisce e comincia
il suo calvario nelle galere fasciste: lo arrestano, lo torturano, lo
rilasciano, ogni volta che a Milano arriva un gerarca, lo riarrestano.
Nel ‘33 scappa in Francia. Nel ’36 va
a combattere in Spagna. In realtà il lavoro principale che gli assegna il capo
delle brigate internazionali Luigi Longo è realizzare migliaia di volantini di
propaganda per il fronte popolare. Ed è lì che conosce Giovanni Pesce,
il leggendario Visone, comandante dei Gap, di cui resterà amico tutta la vita.
Ad un certo punto la radio fascista
diffonde la notizia della sua morte in battaglia. A Milano l’ambiente artistico
piange la perdita di un Grande. E quindi le quotazioni delle sue opere
decollano. Solo che lui non è morto. E quando riapparirà alla fine della
guerra come un fantasma lo shock sarà forte, soprattutto per quelli che avevano
contato di far bei quattrini grazie alla sua dipartita. Invece, mentre a Milano
piangono e onorano il genio, dopo la disfatta del Fronte popolare, tra il ‘39
al ‘43 Giandante soggiorna nei campi di concentramento allestiti dai francesi
per gli esuli di Spagna. E non sta con le mani in mano.
Ci sono fotografie che mostrano le
sculture che realizzava per i suoi compagni di prigionia con fango e paglia,
una con un gran faccione di Garibaldi. Riconsegnato all’Italia finisce al
confino ad Ustica, poi nel campo di prigionia di Renicci Anghiari, fino all’8
settembre quando torna a Milano e collabora con la Resistenza. Ed è alla fine
della guerra che incontra Dino Formaggio, allora giovane segretario
della casa della cultura e gli regala centinaia di disegni perché li venda e
raccatti soldi per il partito, “che ne ha bisogno”.
Nel dopoguerra fino alla morte, nel
1984, vive in un grande seminterrato in via Senato pieno di libri e quadri,
segue sporadicamente la vita culturale e artistica milanese, ma si isola sempre
di più. Va spesso dai Pesce, i suoi amici raccontano che lo vanno a trovare ma
lui non apre nemmeno la porta, qualcuno gli lascia da mangiare fuori sul
pianerottolo. A volte va ai mercatini dell’antiquariato e lì compra libri e
svende i suoi quadri, ora quasi tutti paesaggi montani, vasi di fiori e grandi
ritratti incandescenti di volti che sembrano Cristi, coloratissimi e insieme
lugubri. Muore solo e a pagare il suo funerale sarà Giovanni Pesce.
Un brevissimo filmato della Rai del
‘64 lo mostra in un salottino, piccolino e incravattato ma dallo sguardo ancora
incendiario a rispondere alle domande di un giornalista: cosa ne pensa della
pop art? «Mi sento impossibilitato a pensarla». L’arte è sociale? «L’arte è
anche sociale, quando è arte».
©Riproduzione riservata