martedì 6 ottobre 2015

Se il mondo dell'informazione si dimentica di raccontare le donne

C’è un Paese dove ancora il 100% di  poliziotti e militari, religiosi  e tecnici, agricoltori  e impiegati ministeriali sono maschi, e sono maschi il 90% di politici, sportivi,  imprenditori, medici. Un paese dove la presenza delle donne è nascosta salvo affiorare a macchia di leopardo, qua e là: il 25% degli insegnanti, il 23% degli artigiani, il 27% delle celebrities, e oibò, il 74 nelle ong. Non stiamo parlando di qualche emirato, ma dell’Italia.
 I conti non tornano, vero? In effetti questo non è il paese reale, ma il paese così come viene rappresentato da quotidiani e tivù nazionali, come racconta una ricerca promossa dall’ordine dei giornalisti Tutt'altro genere di informazione, coordinata da Maria Teresa Celotti,  che ha esaminato 15 quotidiani nazionali, tra cui Metro e 8 telegiornali. Il risultato è una stupefacente sottorappresentazione del ruolo delle donne nella società italiana, la quale è in effetti molto più avanti di come i media vorrebbero farci credere. Qualche numero: le donne fanno notizie solo nel 17 % dei casi, a meno che non siano vittime, in tal caso balzano al 48%. Le donne consultate come esperte  sono solo il 19%, le giornaliste firmano in prima pagina il 20% delle news mentre rappresentano il 40% della categoria. Metro, in questo quadro abbastanza sconfortante ci fa una discreta figura, dedicando più spazio alle notizie che riguardano le donne (il 20% rispetto alla media del 17%), ed è citato in due casi di buone pratiche, per lo spazio dedicato alla scrittura femminile nella rubrica dei libri e in un approfondimento sul lavoro flessibile.

Non conta solo il quanto, ma il come si parla delle donne e allora qui si spalanca  l’abisso degli stereotipi che per esempio trattando della Boschi, si soffermano sul colore del vestito e sull’altezza del tacco, più di quanto non farebbero nel caso di un suo collega di gabinetto maschio, con varie declinazioni sexy e rosa anche di argomenti molto seri, quando di mezzo ci sono donne in posizioni apicali.  Resta poi lo scoglio degli scogli, quello linguistico: ministro e ministra, avvocato o avvocata? La declinazione delle professioni al femminile per molti operatori dell’informazione intervistati nella ricerca suona tuttora come il gesso sulla lavagna, ma gli esperti della Crusca ci invitano a considerare che si parla come si pensa e visto che l’italiano utilizza i generi, dire ministro per uomini e donne significa pensare che sia un ruolo prettamente maschile, cosa che non è. A noi di Metro la ricerca ci imputa in un caso di aver fatto bene a parlare del gesto eroico di una donna militare, ma di aver sbagliato a chiamarla il maresciallo, perché trattasi di marescialla. È dura, ma ce la faremo.

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pubblicato su Metro il 20 settembre 2015

lunedì 5 ottobre 2015

Perché tirare a sorte è un sistema più democratico delle elezioni

David Van Reybrouck
Se fate parte di quel quarto di elettori (il 50% se siete greci)  che ha detto addio allo stanco rituale del voto, forse siete pronti a non scandalizzarvi e saltare sulla sedia all’affermazione di David Van Reybrouck che, dopotutto, votare non è poi così democratico e che anzi, la democrazia ci guadagnerebbe se ne facessimo a meno. Van Reybrouck non è un matto né un fascista, ma un giovane intellettuale belga progressista di vastissimi interessi, dall’archeologia alla filosofia politica, alla storia, che batte territori impervi. Lo ha fatto raccontandoci la storia del Congo in uno stile à la Kapuscinski (ha vinto il premio omonimo nel 2014) in una mastodontica e documentatissima monografia-reportage su uno dei luoghi più disgraziati del pianeta e ferita aperta per un belga democratico gravato dal peso di una delle colonizzazioni più feroci della storia. E’ quello che fa in Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico appena pubblicato da Feltrinelli, nel quale traduce le aride dissertazioni sui sistemi elettorali in un appassionato pamphlet. Una lettura balsamica tra una rissa e l’altra su Italicum e comma 5 dell’articolo 2 sull’eleggibilità dei senatori.

Van Reybrouck parte dalla constatazione che le democrazie non stanno tanto bene: lo sappiamo noi e lo sa bene lui che ha vissuto la paradossale vicenda del Belgio, rimasto un anno e mezzo senza governo tra 2007 e 2008 perché i partiti non riuscivano a mettersi d’accordo. Per inciso in quel periodo il pil del Belgio fece un balzo all’insù. L’Occidente, dice,  soffre della “sindrome della stanchezza democratica“ che si traduce nella sostanziale inefficienza del sistema, dominato da partiti paralizzati nella loro azione politica da una febbre elettorale cronica,  alimentata in modo esponenziale dai Media, soprattutto le tivù  e dalla paura di perdere voti, che allunga all’infinito i processi deliberativi. La gente quindi si scoccia, non vota più, i partiti perdono iscritti e il risultato è una drammatica crisi di efficienza e insieme di legittimità della democrazia, minacciata da nuovi populismi o esautorata dai tecnocrati (Van Reibrouck inserisce tra i primi Grillo e tra i secondi Monti).

Come uscirne? Cambiando il punto di vista: il problema non è la democrazia in sé, (vale ancora la massima di Churchill: è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate).  Secondo Van Reybrouck la chiave sta nello scardinare “il fondamentalismo elettorale”, ossia la convinzione che democrazia e elezioni siano sinonimi. Non è così, ma soprattutto non è sempre stato così. Dalla democrazia ateniese ai comuni rinascimentali fino alla repubblica di Venezia il metodo elettorale più diffuso è stato il sorteggio, che è sopravvissuto ai giorni nostri solo nella formazione delle giurie popolari. Ma se va bene per giudicare della libertà di un uomo perché non dovrebbe andare bene anche per altri tipi di deliberazione?
Van Reybrouck sostiene senza mezzi termini che è il sorteggio ad essere davvero democratico, perché garantisce la partecipazione effettiva di tutti i cittadini, mentre le elezioni concepite e sviluppate dalle rivoluzioni Americana e Francese in poi sono state utilizzate in realtà “come una procedura che consentiva l’accesso al potere ad una nuova aristocrazia non ereditaria elettiva “, per quanto ampia e progressivamente allargata, che ha mantenuto la distanza tra governanti e governati. “La partecipazione al voto è diventata il montacarichi che porta in alto qualche individuo”. La famosa casta.

Per un po’ il sistema ha comunque funzionato abbastanza bene ed è stato un motore di sviluppo sociale, ma ora non più: “Le elezioni sono il combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di stimolare la democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi”. L’idea che certe cose i partiti non riescano più a farle bene e i cittadini le farebbero meglio, più attenti all’interesse generale, che a quello elettorale è  in effetti un pensiero seducente sul quale da decenni si esercitano schiere di filosofi  della politica (Habermas, Rawls, Fishkin, Manin, Sintomer, in Italia tra gli altri Luigi Bobbio). Nel libro si citano sperimentazioni abbastanza note, come i casi dell’Islanda e dell’Irlanda che hanno affiancato a politici eletti  un’ampia platea di cittadini sorteggiati per fare in tempi abbastanza rapidi una cosa complicata come la riforma costituzionale. L’obiezione che gente presa a caso non sarebbe competente cozza con l’evidenza dei politici incompetenti che affollano i nostri Parlamenti e che nei migliori dei casi si affidano a consulenti ed esperti, cosa che possono fare, e nei casi citati hanno fatto con molto impegno, anche i cittadini sorteggiati. 

I cittadini sorteggiati per la cosituente islandese
Ma l’applicabilità del sistema del sorteggio su larga scala è una prateria ancora aperta al dibattito degli specialisti. L’autore propone di tentare con sistemi misti, elettivi e a sorteggio,  iniziando ad affiancare assemblee di cittadini sorteggiati nelle deliberazioni delle amministrazioni locali. In Italia è già successo a Capannori in Toscana, dove un’assemblea sorteggiata ha contribuito a indirizzare una parte del bilancio. Secondo Van Reybrouck  il tempo stringe: l’Europa dovrebbe farsi promotrice di questi processi per non morire di inedia elettorale. Importante è provare a cambiare paradigma e uscire dai dogmi, senza temere le novità: “Del resto, anche quando Stuart Mill propose il voto alle donne lo presero per pazzo”.

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Pubblicato su Cultweek il 26 settembre 2015