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David Van Reybrouck |
Se fate parte di quel quarto di elettori (il 50% se siete
greci) che ha detto addio allo stanco
rituale del voto, forse siete pronti a non scandalizzarvi e saltare sulla sedia
all’affermazione di David Van Reybrouck che, dopotutto, votare non è poi così
democratico e che anzi, la democrazia ci guadagnerebbe se ne facessimo a meno.
Van Reybrouck non è un matto né un fascista, ma un giovane intellettuale belga progressista
di vastissimi interessi, dall’archeologia alla filosofia politica, alla storia,
che batte territori impervi. Lo ha fatto raccontandoci la storia del Congo in
uno stile à la Kapuscinski (ha vinto il premio omonimo nel 2014) in una
mastodontica e documentatissima monografia-reportage su uno dei luoghi più
disgraziati del pianeta e ferita aperta per un belga democratico gravato dal
peso di una delle colonizzazioni più feroci della storia. E’ quello che fa in Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico appena
pubblicato da Feltrinelli, nel quale traduce le aride dissertazioni sui sistemi
elettorali in un appassionato pamphlet. Una lettura balsamica tra una rissa e
l’altra su Italicum e comma 5 dell’articolo 2 sull’eleggibilità dei senatori.
Van Reybrouck parte dalla constatazione che le democrazie
non stanno tanto bene: lo sappiamo noi e lo sa bene lui che ha vissuto la paradossale
vicenda del Belgio, rimasto un anno e mezzo senza governo tra 2007 e 2008 perché
i partiti non riuscivano a mettersi d’accordo. Per inciso in quel periodo il
pil del Belgio fece un balzo all’insù. L’Occidente, dice, soffre della “sindrome della stanchezza
democratica“ che si traduce nella sostanziale inefficienza del sistema, dominato
da partiti paralizzati nella loro azione politica da una febbre elettorale
cronica, alimentata in modo esponenziale
dai Media, soprattutto le tivù e dalla
paura di perdere voti, che allunga all’infinito i processi deliberativi. La
gente quindi si scoccia, non vota più, i partiti perdono iscritti e il
risultato è una drammatica crisi di efficienza e insieme di legittimità della
democrazia, minacciata da nuovi populismi o esautorata dai tecnocrati (Van
Reibrouck inserisce tra i primi Grillo e tra i secondi Monti).
Come uscirne? Cambiando il punto di vista: il problema non è
la democrazia in sé, (vale ancora la massima di Churchill: è la peggior forma di
governo, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate). Secondo Van Reybrouck la chiave sta nello
scardinare “il fondamentalismo elettorale”, ossia la convinzione che democrazia
e elezioni siano sinonimi. Non è così, ma soprattutto non è sempre stato così. Dalla
democrazia ateniese ai comuni rinascimentali fino alla repubblica di Venezia il
metodo elettorale più diffuso è stato il sorteggio, che è sopravvissuto ai
giorni nostri solo nella formazione delle giurie popolari. Ma se va bene per
giudicare della libertà di un uomo perché non dovrebbe andare bene anche per
altri tipi di deliberazione?
Van Reybrouck sostiene senza mezzi termini che è
il sorteggio ad essere davvero democratico, perché garantisce la partecipazione
effettiva di tutti i cittadini, mentre le elezioni concepite e sviluppate dalle
rivoluzioni Americana e Francese in poi sono state utilizzate in realtà “come
una procedura che consentiva l’accesso al potere ad una nuova aristocrazia non
ereditaria elettiva “, per quanto ampia e progressivamente allargata, che ha
mantenuto la distanza tra governanti e governati. “La partecipazione al voto è
diventata il montacarichi che porta in alto qualche individuo”. La famosa
casta.
Per un po’ il sistema ha comunque funzionato abbastanza bene
ed è stato un motore di sviluppo sociale, ma ora non più: “Le elezioni sono
il combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di stimolare la
democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi”. L’idea che certe
cose i partiti non riescano più a farle bene e i cittadini le farebbero meglio,
più attenti all’interesse generale, che a quello elettorale è in effetti un pensiero seducente sul quale da
decenni si esercitano schiere di filosofi
della politica (Habermas, Rawls, Fishkin, Manin, Sintomer, in Italia tra
gli altri Luigi Bobbio). Nel libro si citano sperimentazioni abbastanza note, come
i casi dell’Islanda e dell’Irlanda che hanno affiancato a politici eletti un’ampia platea di cittadini sorteggiati per
fare in tempi abbastanza rapidi una cosa complicata come la riforma
costituzionale. L’obiezione che gente presa a caso non sarebbe competente cozza
con l’evidenza dei politici incompetenti che affollano i nostri Parlamenti e
che nei migliori dei casi si affidano a consulenti ed esperti, cosa che possono
fare, e nei casi citati hanno fatto con molto impegno, anche i cittadini
sorteggiati.
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I cittadini sorteggiati per la cosituente islandese |
Ma l’applicabilità del sistema del sorteggio su larga scala è una
prateria ancora aperta al dibattito degli specialisti. L’autore propone di
tentare con sistemi misti, elettivi e a sorteggio, iniziando ad affiancare assemblee di
cittadini sorteggiati nelle deliberazioni delle amministrazioni locali. In
Italia è già successo a
Capannori in Toscana, dove un’assemblea sorteggiata ha
contribuito a indirizzare una parte del bilancio. Secondo Van Reybrouck il tempo stringe: l’Europa dovrebbe farsi
promotrice di questi processi per non morire di inedia elettorale. Importante è
provare a cambiare paradigma e uscire dai dogmi, senza temere le novità: “Del
resto, anche quando Stuart Mill propose il voto alle donne lo presero per pazzo”.
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Pubblicato su
Cultweek il 26 settembre 2015