venerdì 2 giugno 2017

Lost in translation: il disagio psichico del migrante chi lo capisce?

Marzia Marzagalia, psichiatra del servizio etnopsichiatria di Niguarda
Una mamma africana è con il suo neonato in una comunità alloggio nel Milanese. Ultimo approdo dopo un’odissea tra deserti e barconi. Il bambino piange e ha la febbre. Di notte lei lo spoglia e lo porta sul balcone, al freddo. Pensano che sia matta, e corre il rischio che le tolgano il bambino.«Il caso viene sottoposto a noi, la donna non capisce cosa le stia succedendo, “nel mio paese si fa così” dice. La presa in carico comporta che  tutti, pazienti e operatori, confrontino le proprie matrici culturali alla base dei nostri giudizi: alla mamma si spiega che qui fa freddo e deve aggiornare i suoi parametri di cura e agli operatori che non è pazza». Casi di “lost in translation“ sono l’esperienza quotidiana di Marzia Marzagalia, psichiatra che lavora all’ambulatorio di etnopsichiatria dell’ospedale di Niguarda di Milano, unico centro pubblico in Italia a fornire dal 2001 un servizio dedicato alla cura dei sans papier.  Un’esperienza simile è quella del docente e psichiatra Roberto Beneduce, fondatore del Centro Fanon di Torino, pioniere dell’etnopsichiatria in Italia sin dagli anni ’90 con più di 2000 casi trattati, dove cruciale è  il mediatore culturale con competenze linguistiche anche sulle lingue locali: «Un ragazzino afgano in preda a crisi di aggressività, silenzioso, viene curato con psicofarmaci senza risultati, non ci sono mediatori culturali e nessuno parla la sua lingua, così viene sottoposto ad un test non verbale utilizzato nei casi di ritardo mentale e con persone sordomute, risulta con un QI bassissimo. Poi viene da noi e mano a mano si apre: si scopre che sa 4 lingue ed ha vissuto esperienze terribili” .
 La parola etnopsichiatria potrebbe suonare ghettizzante, ma la realtà dei flussi migratori obbliga a tenere insieme competenze cliniche e antropologiche per poter parlare con chi interpreta sintomi e malesseri secondo codici diversissimi dai nostri. Sul territorio sono pochissimi i centri e gli operatori preparati, colpiti da tagli continui. Lacuna grave se è vero che secondo Msf  il 60% dei rifugiati presenta qualche tipo di disagio mentale. «La psichiatria classica tende a riprodurre stereotipi coloniali e ancora oggi è intrisa di pregiudizi razziali- dice Beneduce- fra gli psichiatri c’è chi per spiegare certi comportamenti fra i giovani immigrati sostiene che gli arabi avrebbero un particolare rapporto con il sangue». 
Esiste un prima e un dopo nella realtà del disagio psichico degli stranieri: «Prima erano soprattutto migranti economici -dice Marzagalia- Tutto cambia con l’emergenza Nordafrica nel 2011, quando crolla il regime di Gheddafi. All’inizio molti di quelli che arrivavano erano in Libia per lavorare, non volevano venire in Europa, sono stati letteralmente buttati in mare. Ora ci occupiamo sempre di più di africani che vengono da esperienze  traumatiche, dopo essere stati schiavizzati e torturati in Libia, poi c’è la traversata in mare e il trauma dell’arrivo. Spesso non sanno nemmeno dove sono e perché sono trattenuti». In carico a Niguarda ci sono in questo momento  260 pazienti, il 40% giovani sotto i 24 anni, prevalentemente maschi. Un trend in continua crescita con una media di una ventina richieste di valutazione al mese. La patologia è sempre di più correlata al trauma della tortura. «Spesso ce lo dicono solo dopo mesi».

«il disagio psichico nasce dalla vicenda del viaggio, ma soprattutto dal buco nero di incertezze in cui si trova nel paese d’arrivo ” rimarca Beneduce. Dopo aver superato prove indicibili il crollo avviene qui. «Un ragazzo arriva  dal Togo perché è discriminato - racconta Marzagalia - in Togo c’è il carcere per gli omosessuali, è scappato ed è arrivato in Libia. Lì è stato fermato, picchiato e torturato, poi si imbarca fino a Lampedusa, da lì a Milano. Viene messo in un centro con tantissime persone, in attesa, comincia a sentirsi perseguitato, non dorme, rivede le torture, piange, è sempre stanco, ha il mal di testa. Se tu fossi nel tuo paese che cosa faresti, gli chiedo.  Mai stato male prima. Lì comincia il lavoro di ascolto e narrazione».
Nell’approccio etnopsichiatrico l’ascolto è fondamentale, ed è una continua rimessa in discussione dei parametri clinici convenzionali. Quasi tutti accusano solo sintomi somatici, per loro  è il malocchio. «Se un paziente mi dice al mio paese mi hanno fatto il malocchio, mi faccio spiegare da lui cos’è il malocchio- spiega Marzagalia -. Il marabutto qui non ce l’ho però ho delle medicine e gliele propongo. Ci siamo anche serviti dell’aiuto di guaritori conosciuti nelle comunità. A volte il paziente ci dice:  torno casa per fare un rito di purificazione. Un paio di volte ha funzionato».  E Beneduce, che segue progetti in Mozambico, sottolinea il ruolo importante delle chiese evangeliche nel sostegno al disagio mentale.


Il rito ha una parte fondamentale nella cura perché «nelle culture tradizionali la malattia è qualcosa che viene da fuori, da una situazione di squilibrio con la comunità o con gli antenati e quindi nella migrazione non funziona più niente- spiega la psicologa Luisa Cattaneo- . A volte basta farsi dare una boccetta d’acqua con un foglietto con le parole del Corano come forma di protezione ».  Cattaneo con la cooperativa Crinali, in convenzione con le Asl di Milano da 15 anni tratta il disagio psichico dei minori, ogni anno vengono seguite una trentina di famiglie. «Il punto di partenza etnopsichiatrico è che non possiamo lavorare con i ragazzi se non lavoriamo con i genitori perché il compito è la ricostruzione della storia familiare e della migrazione». Lo shock culturale investe l’intera famiglia: tipico il caso di una ragazza egiziana di 16 anni scappata di casa e finita in comunità dopo vari  tentativi di suicidio. «Per due anni abbiamo lavorato con la famiglia, una famiglia numerosa di gente per bene,cercando di smussare le reciproche rigidità. Un effetto della migrazione è che qua le cultura di origine diventa più rigida e protettiva: la ragazza raccontava che quando andava in Egitto era più libera di quello che le era concesso essere qui». Ma i disagi psichici dovuti allo shock culturale sono vari: in età scolare qualcuno soffre di mutismo selettivo: parla a casa ma a scuola no, oppure i bambini imparano l’italiano meglio dei genitori «Si crea un’inversione dei ruoli che lascia i bambini molto soli».Un tema emergente è quello dei figli ricongiunti che arrivano a 12 o 13 anni dal paese di origine, non conoscono i genitori e una volta qui si sentono spaesati, senza identità:  da lì nasce il fenomeno delle bande, soprattutto nelle comunità latinoamericane: «Sono una delle modalità per riconoscersi e capire chi si è».

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Pubblicato su pagina99 il 14 aprile 2017