Marzia Marzagalia, psichiatra del servizio etnopsichiatria di Niguarda |
Una mamma
africana è con il suo neonato in una comunità alloggio nel Milanese. Ultimo
approdo dopo un’odissea tra deserti e barconi. Il bambino piange e ha la
febbre. Di notte lei lo spoglia e lo porta sul balcone, al freddo. Pensano che
sia matta, e corre il rischio che le tolgano il bambino.«Il caso viene
sottoposto a noi, la donna non capisce cosa le stia succedendo, “nel mio paese
si fa così” dice. La presa in carico comporta che tutti, pazienti e operatori, confrontino le
proprie matrici culturali alla base dei nostri giudizi: alla mamma si spiega
che qui fa freddo e deve aggiornare i suoi parametri di cura e agli operatori
che non è pazza». Casi di “lost in translation“ sono l’esperienza quotidiana di
Marzia Marzagalia, psichiatra che lavora all’ambulatorio di etnopsichiatria
dell’ospedale di Niguarda di Milano, unico centro pubblico in Italia a fornire
dal 2001 un servizio dedicato alla cura dei sans papier. Un’esperienza simile è quella del docente e
psichiatra Roberto Beneduce, fondatore del Centro Fanon di Torino, pioniere
dell’etnopsichiatria in Italia sin dagli anni ’90 con più di 2000 casi
trattati, dove cruciale è il mediatore
culturale con competenze linguistiche anche sulle lingue locali: «Un ragazzino afgano in preda a
crisi di aggressività, silenzioso, viene curato con psicofarmaci senza
risultati, non ci sono mediatori culturali e nessuno parla la sua lingua, così
viene sottoposto ad un test non verbale utilizzato nei casi di ritardo mentale
e con persone sordomute, risulta con un QI bassissimo. Poi viene da noi e mano
a mano si apre: si scopre che sa 4 lingue ed ha vissuto esperienze terribili” .
La parola etnopsichiatria potrebbe suonare
ghettizzante, ma la realtà dei flussi migratori obbliga a tenere insieme competenze
cliniche e antropologiche per poter parlare con chi interpreta sintomi e
malesseri secondo codici diversissimi dai nostri. Sul territorio sono
pochissimi i centri e gli operatori preparati, colpiti da tagli continui.
Lacuna grave se è vero che secondo Msf
il 60% dei rifugiati presenta qualche tipo di disagio mentale. «La psichiatria classica tende a
riprodurre stereotipi coloniali e ancora oggi è intrisa di pregiudizi razziali-
dice Beneduce- fra gli psichiatri c’è chi per spiegare certi comportamenti fra
i giovani immigrati sostiene che gli arabi avrebbero un particolare rapporto
con il sangue».
Esiste un
prima e un dopo nella realtà del disagio psichico degli stranieri: «Prima erano soprattutto migranti
economici -dice Marzagalia- Tutto cambia con l’emergenza Nordafrica nel 2011,
quando crolla il regime di Gheddafi. All’inizio molti di quelli che arrivavano
erano in Libia per lavorare, non volevano venire in Europa, sono stati
letteralmente buttati in mare. Ora ci occupiamo sempre di più di africani che
vengono da esperienze traumatiche, dopo
essere stati schiavizzati e torturati in Libia, poi c’è la traversata in mare e
il trauma dell’arrivo. Spesso non sanno nemmeno dove sono e perché sono
trattenuti». In carico a Niguarda ci sono in questo momento 260 pazienti, il 40% giovani sotto i 24 anni,
prevalentemente maschi. Un trend in continua crescita con una media di una
ventina richieste di valutazione al mese. La patologia è sempre di più
correlata al trauma della tortura. «Spesso ce lo dicono solo dopo mesi».
«il disagio
psichico nasce dalla vicenda del viaggio, ma soprattutto dal buco nero di
incertezze in cui si trova nel paese d’arrivo ” rimarca Beneduce. Dopo aver
superato prove indicibili il crollo avviene qui. «Un ragazzo arriva dal Togo perché è discriminato - racconta
Marzagalia - in Togo c’è il carcere per gli omosessuali, è scappato ed è
arrivato in Libia. Lì è stato fermato, picchiato e torturato, poi si imbarca
fino a Lampedusa, da lì a Milano. Viene messo in un centro con tantissime persone,
in attesa, comincia a sentirsi perseguitato, non dorme, rivede le torture,
piange, è sempre stanco, ha il mal di testa. Se tu fossi nel tuo paese che cosa
faresti, gli chiedo. Mai stato male
prima. Lì comincia il lavoro di ascolto e narrazione».
Nell’approccio
etnopsichiatrico l’ascolto è fondamentale, ed è una continua rimessa in
discussione dei parametri clinici convenzionali. Quasi tutti accusano solo
sintomi somatici, per loro è il malocchio.
«Se un paziente mi dice al mio paese mi hanno fatto il malocchio, mi faccio
spiegare da lui cos’è il malocchio- spiega Marzagalia -. Il marabutto qui non
ce l’ho però ho delle medicine e gliele propongo. Ci siamo anche serviti
dell’aiuto di guaritori conosciuti nelle comunità. A volte il paziente ci
dice: torno casa per fare un rito di purificazione.
Un paio di volte ha funzionato». E Beneduce,
che segue progetti in Mozambico, sottolinea il ruolo importante delle chiese
evangeliche nel sostegno al disagio mentale.
Il rito ha una
parte fondamentale nella cura perché «nelle culture tradizionali la malattia è
qualcosa che viene da fuori, da una situazione di squilibrio con la comunità o
con gli antenati e quindi nella migrazione non funziona più niente- spiega la
psicologa Luisa Cattaneo- . A volte basta farsi dare una boccetta d’acqua con
un foglietto con le parole del Corano come forma di protezione ». Cattaneo con la cooperativa Crinali, in convenzione
con le Asl di Milano da 15 anni tratta il disagio psichico dei minori, ogni
anno vengono seguite una trentina di famiglie. «Il punto di partenza etnopsichiatrico
è che non possiamo lavorare con i ragazzi se non lavoriamo con i genitori
perché il compito è la ricostruzione della storia familiare e della
migrazione». Lo shock culturale investe l’intera famiglia: tipico il caso di
una ragazza egiziana di 16 anni scappata di casa e finita in comunità dopo
vari tentativi di suicidio. «Per due
anni abbiamo lavorato con la famiglia, una famiglia numerosa di gente per
bene,cercando di smussare le reciproche rigidità. Un effetto della migrazione è
che qua le cultura di origine diventa più rigida e protettiva: la ragazza
raccontava che quando andava in Egitto era più libera di quello che le era
concesso essere qui». Ma i disagi psichici dovuti allo shock culturale sono
vari: in età scolare qualcuno soffre di mutismo selettivo: parla a casa ma a
scuola no, oppure i bambini imparano l’italiano meglio dei genitori «Si crea
un’inversione dei ruoli che lascia i bambini molto soli».Un tema emergente è
quello dei figli ricongiunti che arrivano a 12 o 13 anni dal paese di origine,
non conoscono i genitori e una volta qui si sentono spaesati, senza
identità: da lì nasce il fenomeno delle
bande, soprattutto nelle comunità latinoamericane: «Sono una delle modalità per
riconoscersi e capire chi si è».