domenica 9 aprile 2017

Francesco Lotoro, il cacciatore di musica ribelle scritta nei lager


Lotoro a Terezin.


All’allievo di Dvorák Rudolf Karel, detenuto e torturato in un carcere di Praga dopo l’occupazione tedesca, come a tutti i prigionieri politici era vietato scrivere. Colpito dalla dissenteria approfittava delle soste in infermeria per comporre su carta igienica con il carbone vegetale quella che sarebbe divenuta un’opera in cinque atti, salvata grazie alla complicità di un secondino. Karel morì poi a Terezín. Il musicista Hans Van Collem, invece, nel lager olandese di Westerbork (dove passò anche Anna Frank), usava i campi di patate come un pentagramma, poi chiedeva ai compagni di memorizzare le note incise nella terra per trascriverle su carta igienica: così compose il Salmo 100 per coro maschile che venne cantato di nascosto nelle latrine. Il tenente Giuseppe Capostagno, imprigionato dagli inglesi a Yol (India), scrisse lì la sua Himalayana Suite per orchestra; mentre in Algeria, nel campo di Saïda, il compositore e ufficiale italiano Berto Boccosi scrisse l’opera in tre atti La Lettera Scarlatta.
Il manoscritto de La Lettera Scarlatta

«Un capolavoro», dice Francesco Lotoro, 53 anni, pianista, compositore e soprattutto ricercatore infaticabile di Barletta che da 30 anni insegue in tutto il mondo ciò che si è salvato della musica creata nei campi di concentramento, frugando negli archivi e intervistando i sopravvissuti. «Sono partito da una curiosità personale, poi è diventato altro, la necessità di colmare un gap di 70 anni per far rivivere un pezzo importante di musica del Novecento rimasta nascosta, che oggi pretende di essere riascoltata». La sua ricerca, grazie a cui rappresenta un’autorità mondiale sul tema, va dal 1933 (data di apertura del primo campo a Dachau) al 1953 (con l’amnistia per gli ultimi prigionieri tedeschi nei Gulag) e raccoglie materiali di ebrei, cristiani, zingari, sufi, comunisti, prigionieri civili e militari detenuti in tutti gli angoli del mondo durante la Seconda guerra mondiale, dall’Europa al Giappone, dalle Filippine al Suriname.

Lotoro ha fondato a Barletta l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria e ha raccolto circa ottomila partiture, 12 mila documenti, centinaia di interviste. Sta pubblicando il Thesaurus Musicae Concentrationariae, enciclopedia in 12 volumi che dovrebbe essere terminata nel 2022. La sua storia è raccontata anche nel docufilm The Maestro del regista franco-argentino Alexandre Valenti, che uscirà in Italia il 23 gennaio. Un’occasione per accendere i riflettori anche su un progetto visionario, per ora solo in parte finanziato: creare in una ex distilleria di Barletta una Cittadella della musica concentrazionaria: uno spazio che ospiterà un archivio, un campus e un teatro «dove ridare voce a opere create nei campi ma mai eseguite, come Renaissance, la mimo-opera della durata di due giorni composta dal francese Émile Goué in un campo in Germania», afferma Lotoro.

Filo rosso del suo lavoro è svelare come la musica “in cattività” rappresentasse spazi veri di libertà, vie di fuga: un’immagine lontanissima da quella sinistra dell’orchestra di Auschwitz (che suona per il piacere sadico degli aguzzini mentre i deportati vanno alla morte) o dei concerti di Terezín (concessi al fine di trasmettere una visione edulcorata del lager). «Pochissima della musica prodotta dai campi è stata commissionata, solo lo 0,5%», dice Lotoro. «Ovunque ci sia stata una realtà concentrazionaria si è sviluppata creatività musicale, e la necessità fa virtù: in quei lager si è fatta anche molta sperimentazione». A Terezín il compositore ebreo Viktor Ullmann, allievo di Schönberg che fu ucciso insieme alla moglie ad Auschwitz, oltre a scrivere opere importanti fondò e diresse lo Studio für Neue Musik, che promuoveva i giovani compositori internati.
La partitura di Rudolf Karel su carta igienica.


Tra le mille storie c’è n’è una di cui Lotoro ha raccolto il testimone, quella del polacco Aleksander Kulisiewicz. Arrestato nel 1940 per un articolo contro i collaborazionisti, fu deportato a Sachsenhausen, vicino a Berlino, dove mise a disposizione dei compagni di prigionia la sua memoria prodigiosa imparando canti e musiche perché non si disperdessero. «Tutti andavano da lui, anche gli ebrei lo pregarono di memorizzare i loro salmi». ricorda il pianista e studioso pugliese. Scampato alla marcia della morte nel 1945 e ricoverato a Cracovia, si pensò fosse impazzito perché cantava continuamente: «Domandò di qualcuno che lo aiutasse a trascrivere la musica che aveva in testa, e così vennero raccolte 764 canzoni». Dopo la guerra, Kulisiewicz continuò la sua ricerca sulla musica dei lager e scrisse più di 2000 pagine, mai pubblicate. «È la mia Bibbia», dice The Maestro, «tutto è partito da lì».

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Pubblicato il 22 gennaio 2017 su Pagina99

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