“Signorina, si calmi” . Così nel 1935 il filosofo Antonio
Banfi liquidava con tre parole scritte in calce al manoscritto, l’ardore
poetico della sua brillante allieva Antonia Pozzi, che gli chiedeva un giudizio
sui suoi versi. Proprio per quei versi bistrattati
il nome della Pozzi dal 2 novembre 2015, pochi giorni fa, è scolpito nel Famedio tra i grandi milanesi , lì accanto
al suo professore che l’aveva così brutalmente scoraggiata. Un bel risarcimento oggi, ma allora, per lei
che dichiarava: “vivo della poesia come le vene vivono del sangue”, un colpo feroce
alla propria identità di poeta.
Antonia Pozzi,
ragazza milanese di buonissima famiglia e vasti interessi nella stagione buia del
fascismo, si è suicidata nel 1938 a 26 anni sul prato di Chiaravalle, senza
aver mai stampato un verso. Per quarant’anni, nonostante alcune pubblicazioni
postume e gli elogi di Montale, la sua
vicenda letteraria è passata sottotraccia. Fino agli anni Ottanta, quando è iniziata
la sua riscoperta per merito di una suora, Onorina Dino. Al suo ordine, le Preziosine, la madre
contessa di Antonia aveva donato la
villa estiva di Pasturo, in Valsassina, con tutto l’archivio della poetessa che
considerava quella casa il suo rifugio. Da allora ad oggi è stato un crescendo
vorticoso tra ristampe, saggi e convegni, gruppi facebook a lei dedicati,
traduzioni, film. E la sua
icona di poetessa tragica è servita persino a rilanciare il marketing
territoriale: all’ingresso di Pasturo compaiono grandi cartelloni con il suo
volto e i suoi versi che invitano alla visita. Ora la casa della Pozzi, di
proprietà delle religiose, non ospita più l’archivio, acquisito dall’Università
dell’Insubria. Antonia è nel cimitero del paese, dove ha voluto essere
seppellita, meta di pellegrinaggio di fan devoti.
Prova regina di quanto il suo culto si sia
esteso è il numero di film su di lei in circolazione: ben tre. La prima
pellicola, “Poesia che mi guardi”,
docufiction del 2009 della milanese Marina Spada, è ora in
programmazione all’Oberdan di Milano nella rassegna cinematografica dedicata ai
poeti, nell’ambito della mostra “Sopra
il nudo cuore”, che raccoglie fotografie e filmati di e su Antonia Pozzi
(fino al 6 gennaio). Una bella occasione per scoprire come gli altri vedevano
Antonia, nelle foto di famiglia che la mostrano
ragazza elegante, sorridente e un po’ impacciata sui campi da tennis, al mare o
in mezzo ai suoi compagni di università Remo Cantoni e Vittorio Sereni. Ma soprattutto un altro modo, oltre ai versi, per capire come
lei guardava le cose. Oltre alla poesia e alla filosofia le passioni della
Pozzi erano la fotografia, 4000 gli scatti che ha lasciato, e l’alpinismo. La
seguiamo così nelle sue passeggiate in montagna, innamorata della natura. Ma
anche nel suo vagabondare armata di
macchina fotografica nelle periferie milanesi, che negli ultimi mesi di vita
frequentò assieme a Dino Formaggio, uno dei suoi amori non corrisposti, studente operaio e compagno di università poi
divenuto uno dei più importanti filosofi italiani. Quelle periferie che racconta spietata in “Via dei Cinquecento”, il palazzo degli
sfrattati: “…e la fame non appagata/gli urli dei bimbi non placati/il petto
delle mamme tisiche e l’odore/ odor di cenci, d’escrementi, di morti-serpeggiante
nei tetri corridoi”.
“Si può leggerlo
come il diario di un'anima e si può leggerlo come un libro di poesia” diceva Montale delle sue
poesie, nella prima versione manomesse dal padre, avvocato fascista che aveva censurato
i versi per lui più indecenti, così come aveva occultato lo scandalo più grande, il
suicidio, edulcorato in polmonite fulminante. Mentre Montale invitava a leggere
soprattutto il “libro di poesia” e la bellezza dei versi, nella riscoperta di
Antonia Pozzi fatalmente si è preso parecchio spazio anche il “diario
dell’anima”, la sua biografia, l’icona dark della giovane poetessa suicida
sfibrata dal male di vivere e dagli amori infelici. “Per troppa vita che ho nel
sangue tremo nel vasto inverno” scriveva lei, ed è la regista Marina Spada a
parlare di sensibilità punk ante
litteram. E non è poi così strano trovare sue citazioni persino nei blog dei
metallari. Nei altri due film più recenti,
Il cielo in me, Vita
irrimediabile di una poetessa del 2014 di Sabrina Bonaiuti e Marco Ongania
e nel 2015 Antonia di Ferdinando Cito Filomarino,
che in questi mesi sta girando molti festival e ripercorre gli ultimi dieci
anni di vita della Pozzi, l’attenzione vira sul dramma esistenziale. Lo snodo
cruciale è l’amore contrastato, e alla
fine impedito dalla famiglia, di lei ragazzina 17enne con il suo professore di
greco e latino di 18 anni più vecchio. Amor fou ed evento drammatico centrale
nella sua vicenda. Su di lei si sono
divise anche le sue principali biografe, Alessandra Cenni e la stessa Onorina Dino,
l’una ipotizzando amori carnali e forse persino un aborto (del resto nella
poesia della Pozzi la figura del bambino non nato, del bambino morto è
ricorrente) l’altra accreditando l’immagine di una Pozzi ardente ma “pura”, mistica laica e ribelle.
Un
miracolo la Pozzi sembra averlo comunque fatto, un sortilegio capace di tenere
insieme mondi e sensibilità sideralmente distanti, religiose e femministe,
collettivi alternativi e premi Nobel, metallari e accademici. Merito senz’altro del “libro della poesia”,
quelle parole “asciutte e dure come i sassi e come gli
ulivi, oppure vestite di veli bianchi strappati” secondo la definizione della
stessa Pozzi, che ritroviamo nell’ultima raccolta completa della sua opera Parole, a cura di Onorina Dino
e Graziella Bernabò, (Ancora edizioni, 2015) che verrà presentata all’Oberdan
il 9 novembre alle 18,30.
Pubblicato su Cultweek il 7 novembre 2015
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