sabato 12 gennaio 2019

Marina Abramovic: «Spegnete i cellulari»

Mostro sacro, monumento vivente dell’arte contemporanea,  Marina Abramovic a 72 anni mantiene la capacità di spiazzarti scendendo da quel piedestallo che lei stessa si è costruita in 50 anni di carriera. Per esempio mentre sghignazzando rivela: «Mi piace molto raccontare le barzellette sporche». O autodefinendosi la nonna della performance art. Nella sua carriera, celebrata nella retrospettiva The Cleaner in corso a Palazzo Strozzi a Firenze, che ha totalizzato in 87 giorni 115mila visitatori, di cui il 70% donne e la maggior parte giovani, Abramovic si è sporcata spesso le mani, facendo del suo corpo lo strumento della sua arte, a volte facendosi  anche male, soprattutto nei primi anni per poi passare a esperienze più meditative.
Come spiega il suo successo, soprattutto tra i giovani?
«Io sono vera, amo moltissimo quello che faccio e voglio continuare a farlo finchè non muoio, credo sia questo a piacere».



In questa mostra di Palazzo Strozzi molti giovani rifanno le sue performance.
«Non è una mostra normale, è una mostra vivente, dove 32 re-performer rifanno i miei lavori storici, qui si viene per seguire un processo, il pubblico partecipa, si crea una comunità, un circolo di energia. Ho passato 50 anni della mia vita a cercare di fare entrare la performance art nei musei, prima era una terra di nessuno. Negli anni ‘70 ti chiedevano di fare una performance alle inaugurazioni, mentre la gente sorseggiava un drink. Io ho lottato per darle serietà, profondità».
Per lei l’arte ha una missione politica? Penso alla sua performance Balkan Baroque alla Biennale del ‘97 durante la guerra nell’ex Jugoslavia quando pulì una catasta di ossi insanguinati o a lavori più recenti come The House with the Ocean View, replicata a Palazzo Strozzi da una giovane performer:  12 giorni senza mangiare, vivendo sotto gli occhi del pubblico, un invito alla purificazione.
«Non credo ai messaggi politici dell’arte: la politica cambia tutti i giorni, quello che vale oggi non vale più domani. Le società possono avere bisogni diversi: politici, sociali o spirituali. Perciò il mio lavoro ha più strati. House with the Ocean View è un lavoro semplice, che rimette in contatto con l’esserci, la vita stessa, liberi dalla tirannia del tempo e il contatto con il pubblico crea molta energia».
Che rapporto ha con la tecnologia?
«Non dobbiamo demonizzarla, bisogna essere in sintonia con lo spirito del tempo. Il problema è che ne siamo dipendenti, ormai non possiamo vivere senza smartphone».
Anche lei?
«Il mio è spento. C’era un artista, George Brecht, che diceva che era disponibile a parlare solo il mercoledì dalle 3 alle 5. Ecco, dall’anno prossimo farò così anch’io, con le mail».
Non ha mai pensato di utilizzare realtà virtuale o aumentata, o i social nei sui lavori?
«C’è la buona arte e la cattiva arte. A questi nuovi strumenti è legata molta cattiva arte e a me non è ancora venuta nessuna buona idea per farne della buona arte».
Lei ha iniziato qui in Italia e ora questa consacrazione a Firenze.
«Io non mi arrendo mai, per questo ho avuto successo. Negli anni ’70 la performance era di moda poi è stata abbandonata ma io sono andata avanti. A Firenze ricordo che feci un lavoro a cui vennero 12 persone. Ero senza soldi e usai le lenzuola dell’albergo. Pensandoci bene dovrei restituirle. Ho vissuto in un furgone (esposto a Palazzo Strozzi ndr), ho munto le pecore in Sardegna e ho imparato a fare un ottimo pecorino e anche dei maglioni, anche se la lana era un po’ ruvida. E ora mi vede? 50 anni dopo vado all’Hotel Savoy».
È la prima personale di una donna a Palazzo Strozzi.
«In Italia c’erano molte artiste, ma non emergevano, erano schiacciate dai maschi. Colpa di come le madri italiche tirano su i figli».

©Riproduzione riservata

Pubblicato su Metro il 18 dicembre 2018

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